Xilografia mitologica del mio Paese
aprile 26, 2013 in Satira da Claudio Ianni Lucio
Eracle eracleo, anche se non veneziano, trovavàsi ormai da lunghi anni all’ozio in Argo. In quel luogo, la genitura bastarda di Zeus (carnacialesco Anfitrione dai gameti infallibili) ed Alcmena (credulona, anche se in buona fede) che fin dalla culla vantava esperienza nella lotta alle bestie, doveva trovare e, casomai riuscendoci, uccidere la prole, dal sembiante leonino e nemeo, d’incerte origini genitoriali e, perciò, divin-biologiche, ch’era forse di Zeus e Selene, ma forse di Otro ed Echidna, o fors’ancora di Tifone ed Echidna (che comunque v’è due volte su tre, la figlia di Forco e Ceto o di Crisaore e Calliore, la donna con le gambe serpentine, Echidna insomma, candidandosi così come una delle probabili componenti della reale coppia di genitori). Su tali parentele c’è poi da dire che Otro, fratello dell’Idra di Lerna, di Cerbero e della Chimera, venne concepito da Tifone, per mezzo di un procedimento pressoché imponderabile dal punto di vista sessuale, unitosi con Echidna (ai due andò poi lo storico e imbattuto primato di “coppia generatrice di più teste che figli”. Il titolo in questione, insieme alle ovvie difficoltà economiche e relazionali da esso derivate, spinse Tifone, già soverchiato dal trauma infantile della scoperta d’esser nato da una pugnetta di Crono, ad abbandonare il proprio tetto coniugale e rifugiarsi nell’Etna con la scusa, di gran moda al tempo, “delle fatiche mi attendono, debbo scendere in campo per il bene di tutti – anche per la famiglia -, perché la classe dirigente è ormai vecchia decrepita e va sostituita”). Ciò renderebbe, se ne venisse accertata l’origine biologica come figlio di Otro ed Echidna, il Leone frutto d’un incestuoso fornicamento, il che ne spiegherebbe la condotta vandala e antisociale, altrimenti da attribuire a una cattiva educazione o, più probabilmente, a una radicata avidità. Il Panthera leo Nemeo, dandosi arie da smargiasso, terrorizzava ormai da lustri (all’incirca quattro) la popolazione di Argo. Chiedeva continue regalìe in forma di femmine, viveri ed editti ad personam, garantendo, in virtù di queste, un certo grado di protezione da egli stesso. Tutti pagavano; troppi l’amavano (masochisti perversi, verrebbe spontaneo dirsi, o semplici stolti, ipotesi forse più credibile) e tanti erano che s’erano riuniti in gilda, dandosi l’epiteto di “Popolo del Leone”.
Era codesta una magna occasione per Ercole (così chiamavano Eracle gli amici suoi di Trastevere). Egli aveva la possibilità di dar grande sfoggio di sé e compiere in tal modo uno sfolgorante ingresso in società: l’avrebbero considerato un eroe, un liberatore e forse anche un protettore degli onesti. Tuttavia, egli indugiava. Le schiere dei suoi sostenitori, unitisi sotto il nome di “Partito D’Eracle”, guardavano spaesati al suo comportamento letargico e sciatto, monotono e inconcludente.
Pare che Eracle, tornando all’apertissima questione genealogica, non si curasse molto della possibile parentela col Leone Nemeo. Per certo stette molto più attento quando, al corso di etologia, gli spiegarono della sua straordinaria invulnerabilità, anche se adesso pareva dimentico di quelle lezioni, per tutti quegli anni ch’erano ormai capitolati uno dopo l’altro nelll’attendista procrastinazione in Argo.
Vi fu poi un giorno, del quale Eracle dovette però avere un certo presentimento (o semplicemente, dopo tutte quelle giornate vuote passate a fare il bagnante in villeggiatura sul golfo di Nauplia, lo riteneva sempre più incombente), che fu l’ultimo giorno di molle e lattiginosa quiete. Il segno del fato, che mai procede per approssimazioni (poco convenienti, giacché sempre l’uomo non se ne avvede), palesavàsi finalmente, quando ormai il futuro eroe già aveva provveduto a scambiare i virili calzari con delle più frivole infradito color crema, con le inattaccabili, ora gli sovvenne, spoglie crinierate del felide Nemeo il quale, a dirla tutta, nella sua immaginazione s’era delineato un tantinello più possente (che poi, metti caso uno sia minuto, metti sia un nanetto, s’è invulnerabile è invulnerabile, mica cazzi).
E dunque, ricuperata la clava rissaiola (adornata di sonagli in occorrenza di una qualche festa di paese, di quelle ove s’alza prepotentemente il consumo pro capite di salama e cervogia), si gettò a corpo morto sul nemico designato, continuando a non preoccuparsi per quella famosa e incerta parentela, promettendo a gran voce che l’avrebbe privato delle sue pelli e ne avrebbe accorciata la capigliatura (invero, datosi il lavorìo del tempo, lo trovò già calvo).
Giù botte e bastonate, bastonate e botte, come se piovessero, come se qualcuno le scagliasse giù dai cieli soppalcati e adibiti a loft delle divinità; Eracle stava trionfando, tant’è che veniva dato 1,5/1 dai bookmakers. A onor del vero, bisogna dire che il Leone, dopo essersi accasato, nulla più faceva e sempre mandava la femmina a sbrigar le faccende della sopravvivenza, perciò era piuttosto lento e appesantito. Avrebbe potuto accopparla chiunque codesta fiera felina, perfino Amphilochios ch’era l’idiota del villaggio.
Ma è sempre al culmine delle sue imprese che l’eroe, con quel guizzo peculiare delle figure di spicco, simile allo sgusciare diabolico dell’oliva dal piatto, spinta dalla pressione dei rebbi oltre la tavola, oltre gl’ospiti, oltre le imposte, oltre la percezione, oltre la pazienza, ti sorprende e ti lascia lì coi labbri spalancati a ingoiar aracnidi calantisi dal soffitto. Eracle, infatti, invece di vibrare il colpo risolutore, la randellata conclusiva, decise, e mai venne spiegato il motivo, di tirarsi una potentissima e brutale vergata sui coglioni. In quel momento, nonostante il dolore, il nostro non vacillò, anzi, risoluto si tirò un’altra sventola sullo scroto, una pagaiata tremenda, così rimbombante da far fuggire gli uccelli del lago Stinfalo (e qui l’eroe bestemmiò Zeus tra i denti, visto che gli sarebbe toccato di ricercarli tutti uno per uno più tardi), ma nemmeno quest’altra mazzata lo fece desistere dal martoriarsi le gonadi.
Così, nelle settimane a seguire, Eracle perseverava nel bastonarsi gli attributi, apparendo ora mesto e intristito, eppure incapace di smettere; mentre il Leone, ripresosi quel tanto che bastava, tentava di vincerlo, mordicchiandogli, in verità molto blandamente, le caviglie, quasi volesse, contro ogni buona logica, corteggiarlo, ammansirlo, quasi confidasse più nella resa del mai fu eroe che nella sua pallida gloria d’incartapecorito felino.