Welcome to Filastin [1]
gennaio 7, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Mentre ti dirigi al controllo passaporti, timorosa, riluttante e sforzandoti di recitare mentalmente il copione della pellegrina smaniosa di visitare i luoghi sacri, il tuo pensiero va a Lui, a quel ragazzo intrepido e appassionato che entrò a Gaza via mare, rompendo il blocco navale israeliano. Tu, che sei infinitamente più pavida, per arrivare in Palestina hai dovuto optare per un viaggio organizzato e già te la fai sotto. Palestina? Tecnicamente sei nell’aeroporto di Tel Aviv, intitolato a Ben Gurion, quel Ben Gurion che diceva cose come dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba, tanto per sottolineare, sin dall’inizio, quali mezzi di convivenza pacifica volesse adottare verso la popolazione autoctona il fondatore di quella che, dopo più di sessant’anni di pulizia etnica, apartheid e occupazione, è ancora considerata l’unica democrazia del Medio Oriente. Stare al gioco e fingere di non conoscere neppure l’esistenza di una terra chiamata Palestina – d’altro canto la tua guida Touring la chiama “Territori palestinesi” e la descrive quasi come un’appendice dello Stato ebraico – aumenta il senso di disagio e inadeguatezza e, ancora una volta, pensi a quell’italiano dagli occhi e capelli scuri che a Tel Aviv fu arrestato due volte, senza che la tortura o la prepotenza scalfissero il suo impegno per i diritti umani. Osservi quegli impiegati tuoi coetanei e ti domandi come si possa, coscientemente, scegliere un’occupazione che è, in sostanza, tortura verbale e che può emanare un “accesso negato” sulla base di un sentimento umorale o di una parola fuori posto. Vorresti quasi provare a metterli a prova, urlare che “con tutto quello che fa il mio Paese per voi, dovreste accoglierci in pompa magna, anziché trattarci come potenziali terroristi”. Mentire e partecipare a questa barbara damnatio memoriae, accettare tacitamente che “Palestina” diventi impronunciabile ti sembra un compromesso inaccettabile e per cui provi vergogna.
Ma il belloccio che hai di fronte ti avvisa, con uno stentato italiano con il quale ti augura persino buon anno, che sei dentro, e se questo è l’unico modo per portare solidarietà a un popolo martoriato non resta che farsene, a fatica, una ragione. Ad attendervi in aeroporto trovate Mike. Per il momento è solo un nome e un volto affabile, non sai ancora che diventerà uno dei motivi per cui questo viaggio resterà indimenticabile. Dal pullman, mentre hai nelle orecchie la versione di Nina Simone di Here comes the sun, vedi per la prima volta il muro. Imponente, minaccioso, inquietante. Ti chiedi come possa sorgere il sole con più di 700 chilometri di cemento armato e filo spinato, simbolo di un disegno di ghettizzazione e cancellazione dell’Altro, consentito dal silenzio assordante – tanto per citare un efficace ossimoro utilizzato, ancora, da quel ragazzo coraggioso che a Gaza trovò la sua casa – della comunità internazionale, al di là di ipocriti e isolati strepiti.
Guardi i tuoi compagni, ti chiedi perché siano qui, capisci sin dall’inizio che per alcuni è un modo alternativo di passare il Capodanno, ma che per altri è, come per te, il coronamento di un amore coltivato a distanza, di una passione giovane e non ancora consumata che deve trovare corporeità, sostanza, concretezza. L’autobus frena. Sei a Gerusalemme. Sei in Palestina.