Vedi Nablus… e poi canti! [8]
febbraio 28, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Ancora scossi dal racconto scioccante della realtà dei campi profughi, vi lasciate portare dal pullman a Nablus, coccarda della resistenza palestinese. Sin dall’ingresso nella città vecchia, senti che qui si respira un’aria diversa dalla più cosmopolita Ramallah. Intanto percepisci, nettamente, un certo grado di diffidenza, quasi un fastidio verso i vostri costumi occidentali, testimoniati da occhiali da sole e macchina digitale alla mano.
Alcuni ragazzini bivaccati in un vicolo vi osservano per qualche minuto, tirano fuori una scopa e iniziano a spazzare l’uscio di casa. Intenerita, credi che stiano pulendo perché ipotizzano un vostro passaggio, e invece, mentre sei assorta in questo genere di pensieri, uno di questi urla, con violenza, “yalla yalla!” (andatevene). Un gruppo di anziani ti guarda, a metà tra lo scandalizzato e il curioso, mentre tenti di rollare una sigaretta senza perdere il resto del gruppo, e un belloccio sorridente ti si avvicina e ti chiede se hai dell’hashish. “Ehm, no, it isn’t a …”, ma poi ti blocchi, perché non hai la minima idea di quale sia la traduzione inglese di “spinello”. Il tuo smisurato amore per questo popolo e per la sua caparbietà si scontra, a Nablus, con il tuo femminismo militante. Punti quasi per caso la camera verso una schiera di donne, tutte rigorosamente velate, e noti una bambina che, per sfuggire all’obiettivo, nasconde il volto con il sacchetto della spesa. Un senso del pudore così spiccato, a quell’età, ti stranisce. Una tua compagna indirizza la macchina fotografica verso un carretto e proprio in quel momento passano due coppie. Immediatamente, la parte maschile di una delle due inizia a sbraitare “no no no, no photo!”, coprendo la propria compagna con tutto il corpo e spingendola con forza dietro la sua possente schiena. L’irritazione è alle stelle.
Le tue letture femministe ti hanno autorizzato a essere feroce nei confronti della subdola subalternità femminile della società italiana ed europea, ma non sai che fare di fronte a una cultura che non è la tua e verso la quale non intendi porti da snob colonizzatrice e fustigatrice. Ti viene in mente una graphic novel di Marjane Satrapi, passata quasi in sordina rispetto al successo mondiale di Persepolis. Si chiama Taglia e cuci e ha per protagonista un gruppo di donne, tra cui compare l’immancabile autrice, dedite al pettegolezzo e alle divertenti lagnanze verso il trattamento che l’Iran oscurantista e misogino riserva loro. Immagini quindi che le donne che si fanno accompagnare in quel momento a fare acquisti al mercato di Nablus, quelle donne così taciturne, con la testa bassa e attente a non incrociare lo sguardo di nessuno, si risveglino magicamente la sera, quando i mariti, con il ventre gonfio per la cena ed esausti per la giornata di lavoro, si assopiscono sul divano. Le vedi sgattaiolare fuori, sedersi su una seggiolina in strada con le vicine e ridere delle piccole eccentricità e assurdità maschili, fantasticando su un futuro prossimo in cui il ruolo di madre e moglie possa essere una scelta e non l’approdo più ovvio per non essere relegate ai margini della società. Immaginare una simile scena e pensare a Suad Amiry, scrittrice palestinese che hai simbolicamente promosso nel tuo personale santuario degli esempi più autorevoli di emancipazione, ti fa sentire subito meglio. Anche perché ti scontri presto con un altro significato di fotografia: a Nablus, un grande cimitero a cielo aperto, la fotografia è sinonimo di morte e di tragedia. Ogni centimetro della città è infatti invaso da immagini di martiri, perlopiù giovani e giovanissimi, che hanno perso la vita durante la vendetta israeliana per la Seconda Intifada. La famiglia al-Shu’bi “gode” di un trattamento particolare, avendo un’intera targa commemorativa che ricorda la peculiarità del suo caso: un bulldozer israeliano faticava ad avanzare nella piazzetta e, per guadagnare spazio, non esitò a schiacciare l’abitazione degli Shu’bi, lasciando sotto le macerie ben dieci persone, delle quali solo due hanno potuto rivedere la luce. Se per gli abitanti l’Occidente è quella porzione di mondo che tace di fronte a questi crimini contro l’umanità, comprendi il perché a Nablus tu senta, più che altrove, una perentoria volontà di conservatorismo, come se da questa dipendesse la sopravvivenza dell’identità palestinese.
Cinque fattori, di cui due culinari, bastano, inoltre, a farti dimenticare il senso di spaesamento iniziale. Intanto il falafel, il più buono della settimana, che tuttora rimpiangi pensando alle palline stoppose e gommose vendute dai kebabbari bresciani. In secondo luogo, dei biscotti al sesamo di cui non ricordi il nome, ma dei quali acquisti ben mezzo chilo, razionandoli nelle giornate che ti separano dal ritorno per gustarteli il più a lungo possibile. Mentre attendi che il fornaio ti consegni il tuo malloppo, un bambino, mingherlino e dall’aria scaltra, ti tira per il cappotto e ti chiede “one kiss”. Divertita, ti avvicini alla sua guancia e lo accontenti, vedendolo poi trotterellare con fare da bullo verso gli amici, che si scambiano gomitate continuando a sghignazzare.
Sperimentate poi il caffè turco in un locale aperto da poco. Anche se sai che a quella variante di caffè (che trovi terribile) non ti potresti mai abituare, in quel luogo ti senti immediatamente a casa e avverti una totale familiarità. Sostituisci per un attimo i volti dei tuoi compagni di viaggio con quelli dei tuoi amici di sempre, ed eccoti con Serena, Marta, Claudio, Fabri, Alby, Fede, Meghy, Giordy intorno a un tavolo, con la vostra aneddotica degli anni passati, aneddoti logori, che avete sentito migliaia di volte, ma che non esauriscono mai la loro carica umoristica o aggregativa. Eccovi a chiacchierare con il barista, un ragazzo che ha riposto tutte le sue speranze in quell’attività commerciale, come prova di una fiducia nel futuro che nessun bulldozer israeliano è riuscito a scalfire. Il vostro inglese stentato non vi impedirebbe di capirvi, perché in fondo basta il linguaggio universale della gioventù, dell’empatia, della curiosità verso l’Altro.
La gita a Nablus si chiude con un momento di forte commozione. Incontrate un gruppo di giovanissimi attori italiani e palestinesi, che vogliono farvi assistere all’abbozzo della pièce teatrale che rappresenteranno di lì a un paio di giorni. È uno spettacolo minimale, che si concentra sui gesti e sui protocolli di sicurezza cui sono sottoposti i palestinesi e i turisti, protocolli che sconvolgono chiunque viva in un paese libero. Durante la prova sono previste le canzoni resistenti Unadikum e Bella ciao. La Bella ciao che Vik sussurrava su uno dei pescherecci di Gaza, quasi per farsi forza di fronte ai bestioni marittimi israeliani, pronti a far fuoco sugli inermi pescatori. La Bella ciao così abusata in Italia, che si trova spesso sulle bocche di persone indegne, e che invece in quella stanza riacquista il suo senso più profondo, diventando un bellissimo momento di scambio culturale, di condivisione di valori assoluti, come quello della Resistenza, della lotta per la libertà, dell’amore per la propria terra. Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor: ecco la tragedia palestinese riassunta in una sola frase, nella frase che dà inizio al vostro canto partigiano più bello, che è ormai patrimonio universale.