Una “domenica” che sa di vita

gennaio 6, 2016 in Recensioni da Laura Giuffredi

Carlo Simoni, Domenica, Secondorizzonte, 2015

domenicaSembra non ci voglia più abbandonare, noi lettori, il protagonista narratore, Ezio: nel lungo congedo, posto come una postfazione, o ultimo capitolo, al suo racconto, trattiene la nostra mano e ancora ci accompagna nella stanza, accanto agli scaffali della libreria e, poi, affacciati alla finestra, a cogliere rumori e silenzi.

Forse la paura della solitudine e l’aprirsi del varco, il varco verso la vita, il suo mutamento, al quale bisogna rassegnarsi, senza più illudersi di poterne imbalsamare lo stereotipo, rassicurante quanto, alla lunga, inutile.

Fare i conti col fatto di essere al mondo e vivere i giorni per quello che sono, come il gatto di casa, come i pesci del lago: Ezio se lo impone.

Lo sbaglio è già qui, forse: nel dire che c’è una faccenda, qualcosa da star lì a guardare e studiare come se tu fossi seduto appena fuori, un po’ più in alto, e dunque la vedessi tutta intera e potessi star lì a pensarci su. E invece, forse, non c’è nessuna faccenda. C’è solo un gran movimento. Continuo. Dappertutto […] Cominciare e finire e cominciare…

Ma … occorre fare un po’ pace, con il tempo.

E’ la raccomandazione fondamentale, in un percorso che passa, attraverso la malattia del suocero, per il riesame della propria vita e dei volti che l’hanno affiancata e dai quali forse il protagonista, ora sessantenne, non si è mai lasciato veramente coinvolgere.

Ma in quella domenica, e nella voglia di scriverne, si crea l’occasione per far volare il pensiero, che è anche memoria: memoria di ciò che è stato, sentimentalmente, professionalmente, politicamente; memoria per la città della sua infanzia (una riconoscibile Brescia del secondo dopoguerra, a ridosso della zona industriale, a ovest).

Il passato affiora e con esso apparenti certezze, lucidi scetticismi, che lo consegnano alle attuali insofferenze: per il cinismo di passanti incontrati occasionalmente, per la superficialità di certi parenti o conoscenti, che si frequentano per dovere, ma senza amore né condivisione.

In tutto questo, il passare del tempo, che però non è uno scorrere uniforme ed unitario, ma un fascio di percorsi che si intrecciano, si allontanano, ciascuno con la propria densità.

Tutti pensieri che affiorano nella mente del protagonista, forse anche grazie al suo mestiere di ottico, che, come Spinoza giovane, nel lavorare le lenti riesce a trovare la concentrazione per pensare. E dove si va a parare, in quella domenica un po’ speciale? Si pensa alla morte, a quella imminente del suocero, ma anche a quella che attende, anzi accompagna tutti quanti. Ezio non è un filosofo e lo sa bene, e non vuole correre il rischio di sopravvalutarsi per il solo fatto di saper riflettere: ma, come il leopardiano pastore errante dell’Asia, si pone domande fondamentali; ed infatti è con la Luna che, in chiusura della terza parte del racconto, si confronta. La Luna: una presenza distante, ma rivelatrice. Già Galileo aveva scoperto le sue “librazioni”, quelle piccole oscillazioni lunari che consentono di osservare minimi sprazzi dell’ “altra faccia”, quella non rivolta verso la Terra. L’altra faccia della vita, la faccia nascosta, la morte: Ezio se ne convince.

Oltre all’indagine introspettiva, insistita e tenace, Ezio ci consegna gli efficaci ritratti di altri personaggi. Su tutti quello del suocero morente, tracciato con poche inquadrature che, tuttavia rivelano un mondo: i suoi occhi sono stupefatti, forse dal vedersi trattato dai famigliari come se niente fosse, nel “pietoso” teatrino inscenato al suo capezzale. Cosa c’è dietro quegli occhi? Forse non credeva che sarebbe toccato anche a lui “andare avanti”… Non é paura del dopo, forse, ma del mentre: non è paura della morte, è incredulità, delusione che non si rassegna davanti al proprio morire. Al morire tuo e solo tuo.

 Forse è per superare questo baratro che l’autore introduce la terza parte del racconto, quella decisiva nel percorso di Ezio, con questa citazione da Virginia Woolf: […] non me la sento più di scappellarmi al cospetto della morte. Mi piacerà varcare la soglia mentre parlo, con una frase qualunque interrotta sulle labbra … niente commenti, niente sottomissione, ma qualcuno che con un passo esce nel buio. Sempre più spesso ripeto la mia versione di Montaigne: è la vita che conta.

Una sentenza che il protagonista accetta di far propria, pacificato, nel finale: anch’esso, come tutto il racconto, nello stile discreto dell’autore, tocca le corde di emozioni fondamentali, ma senza una parola di troppo, senza furbe concessioni al patetico. Niente epica, ma tanta umanità.

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