At-Tuwani, dove resistere è esistere [9]
marzo 6, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Alà, alà, che na a scöla l’è ‘n privilegio ti ripeteva, stizzita, la tua cara nonna quando, da bambina, capitavano quelle mattine in cui avresti pagato oro per poter passare le otto ore di tempo pieno nel suo salotto, a ingozzarti di patatine e fare il pieno di cartoni animati, anziché dover ripetere le tabelline o il passato remoto del verbo essere. Ad At-Tuwani, piccolo villaggio posto nella zona C della Cisgiordania – quella che, secondo gli accordi di Oslo, è sotto totale controllo militare e amministrativo israeliano – ti scontri con il senso di quelle parole. Per i minori che vivono nelle poche abitazioni arroccate sulle colline a sud di Hebron, colline immortalate dal documentario Tomorrow’s land, andare a scuola non è soltanto un privilegio, ma una vera e propria odissea quotidiana. Nei pressi del villaggio sorgono infatti l’insediamento di Ma’on e l’avamposto illegale (illegale sia per il diritto internazionale che per la legge israeliana) di Havat Ma’on, dove si sono stanziati coloni ferocissimi e fanatici.
Per evitare che i bambini fossero oggetto di vessazioni a ogni tragitto scolastico, i rappresentanti di Operazione Colomba, associazione nonviolenta italiana che ad At-Tuwani ha una delle proprie sedi operative, fecero loro da scorta per qualche giorno. Quando un volontario venne duramente attaccato, portandosi a casa un polmone perforato, l’amministrazione ebraica prese la decisione di assegnare al suo esercito il compito di garantire ai piccoli palestinesi il diritto all’istruzione. Provi a immaginare che cosa voglia dire, per questi innocenti, doversi affidare alla protezione delle stesse persone che di notte violano la loro intimità domestica, compiendo perquisizioni illegittime e sevizie gratuite, insultando i loro familiari o comunicando la demolizione delle abitazioni.
Questo angolino di ulivi, poggi e animali al pascolo, che sembra una cartolina ingiallita del vostro sud d’Italia prima del boom edilizio, vi offre, di primo acchito, un silenzio spettrale. Ma dopo pochi minuti, iniziate a sentire nell’aria uno strano e incessante ronzio: sono gli aerei militari che sorvolano l’area. L’occupazione, oltre ad avere modificato per sempre la geografia della Palestina storica, ne ha anche irrimediabilmente compresso la percezione uditiva, sostituendo ai belati delle pecore le dimostrazioni di potenza dell’arsenale israeliano.
Ma At-Tuwani resiste, perché per i palestinesi – ci dice con una nota di malinconia Hafez Huraini, rappresentante del Comitato di resistenza popolare – resistere è esistere. Così, il movimento nonviolento è riuscito, appellandosi alle stesse leggi dello Stato ebraico, a contrastare la definitiva demolizione del piccolo borgo e a fermare la costruzione di un muro di quarantuno chilometri, uno dei tanti muri che Israele impone per sbarazzarsi del problema dell’Altro e per aggiungere ettari di terra al proprio bottino di guerra. Mentre il cuore vi si fa stretto per l’ennesimo racconto di ingiustizia e usurpazione, due volontari che dovrebbero illustrarvi il lavoro di Operazione Colomba sono costretti ad andarsene perché un contadino ha richiesto il loro aiuto. Pestaggi, avvelenamento di bestiame, roghi di ulivi e provocazioni da parte dei coloni sono all’ordine del giorno e i pastori contano sul fatto che l’accompagnamento internazionale funga da deterrente.
AT-Tuwani vanta anche una massiccia presenza femminile nella resistenza, che agisce prevalentemente attraverso l’Handicraft Cooperative. Le donne palestinesi devono fare i conti con due diversi tipi di lotta: da una parte c’è il nemico esterno, Israele, e dall’altra ci sono le tradizioni, ci sono i nostri uomini. Far accettare che le donne potessero lavorare e contribuire alla causa è stata dura, ma è una grande conquista vi dice, orgogliosa, Keifah Adarah, coordinatrice della Cooperativa delle donne. Prende la parola anche il figlio sedicenne di Hafez, Sami Huraini, un ragazzotto solare e dall’aspetto vagamente irlandese, che vi racconta le sensazioni provate durante il viaggio a Roma dell’anno precedente, compiuto attraverso l’intermediazione di Assopace Palestina. Tra le bellezze eterne della vostra capitale, Sami si innamorò almeno cinquanta volte e si stupì della vostra libertà di movimento, godendo della gioia di non dover subire costantemente l’umiliante iter del controllo dei documenti. Sami ha un sorriso radioso, ha l’entusiasmo dei suoi sedici anni, ma al contempo, la maturità politica di chi sa di non potersi concedere le distrazioni di cui avrebbe diritto.
Mentre tornate verso il pullman, un bambino – triste, tristissimo, e con delle evidenti abrasioni sul volto – vi segue e si accomoda su uno dei sedili ancora vuoti. Lo strazio di vederlo scendere e di sentirvi addosso il suo sguardo deluso e abbattuto è incommensurabile. Perché quel bambino è così triste? chiede ingenuamente uno di voi. Dovrebbe essere contento di vivere in Palestina, di vivere ad At-Tuwani?, risponde il saggio Mario. Quello sguardo, che sembra contenere la sofferenza di un intero popolo, è solo l’anticamera dell’inferno che vi attende a Hebron.