Trieste inquieta e discreta
maggio 27, 2016 in Recensioni da Mario Baldoli
“E allora? Dov’è Trieste, secondo te, se non qui sotto?”
“Da nessuna parte. L’hai inventata tu.”
“Va bene. Me lo dirai la prossima volta.”
“Non lo saprò nemmeno la prossima volta.”
Con Racconti triestini, ed. Marsilio, Giorgio Pressburger, nato a Budapest e rifugiato in Italia nel 1956 all’invasione sovietica dell’Ungheria, torna a cimentarsi con Trieste, la città di Saba e Svevo, la porta degli Asburgo sul mare, dell’Italia, degli slavi, porta e sentinella del golfo, da dove entrarono in Italia la cultura della Mitteleuropa, il romanzo nuovo e la psicoanalisi. Un contesto che si impone alle persone e sembra schiacciarle, perché siamo tutti dilettanti del destino. “Viviamo come sogniamo, soli”, aveva scritto Conrad, e uomini e donne di questi racconti intrecciano vite di solitudini, che li consumano.
La vecchia pianista che viveva di lezioni, è abbandonata dai figli, con la casa assordata prima da grida d’amore, poi da un istituto per handicappati lì trasferiti dal Comune, ora convoca figli e nipoti per l’ultima sonata: qualcosa di indiavolato, di incredibile per le sue dita accartocciate. E la figlia ammette: ero io che avevo bisogno di gridare nella stanza vicina, tutta la mia vita era in quelle grida. La vecchia termina con un pianissimo appena udibile. Alza le braccia, cade e si abbatte sul pianoforte in uno spaventoso cluster distruggendo tutta la bellezza e l’armonia dei pezzi precedenti. “Un caos spaventoso di suoni si diffuse nella stanza, forse proprio il Caos, quello che la vecchia temeva tanto e che abbracciò quasi, cadendo morta sul suo amato strumento”.
Senza rimpianti, con sentimenti che restano personali, vite che si sbiadiscono, sembrano a volte sussultare, finchè anche l’ultima eco si spegne, è la Trieste di Pressburger..
Pressburger, grande intellettuale, narratore, saggista, regista teatrale, direttore dell’Istituto italiano a Budapest, vincitore di un premio Viareggio e uno Mondello, in questi sette racconti esprime la finta quiete, l’apparente discrezione della città. Città di commercianti, ma anch’essi percorsi da una vena bizzarra, non a caso la città di Svevo, l’ingannatore che ci lanciò l’ultimo sberleffo alla fine della sua “Coscienza”, volendo farci credere d’essere guarito dalle nevrosi. Qualcuno gli ha anche creduto.
In ogni racconto di Pressburger domina quel nichilismo tanto frequente tra gli scrittori della Mitteleuropa:
“Ho deciso anche un’altra cosa – disse la madre avvolta nella sua lugubre vestaglia – facciamo un viaggio, magari in Grecia. Andiamo dieci giorni su una delle Cicladi, ci riposiamo.”
“Di che’?”
“Della vita (…) lì dove voglio andare l’antichità non si vede. Se ne sente solo lo spirito.”
“In che senso? Non siamo niente. Niente. Ed è indifferente come si è niente.”
Madri invadenti, che soffocano i figli, figli che crescono e mentono, malinconie inestirpabili, la bora di Trieste.