“Trasfigurati dalla bellezza”…
giugno 9, 2016 in Album fotografici, Arte e mostre da Pino Mongiello
…è il titolo della relazione che Mons. Giacomo Canobbio ha tenuto nel Duomo Vecchio di Brescia per presentare la mostra delle opere di Arcabas.
Se cancellare la piaga della fame dal nostro pianeta è un dovere primario collettivo, viene spontaneo anche sottolineare, seguendo il titolo della mostra bresciana (“Nutrire il mondo con la bellezza”) conclusa il 5 giugno, che non di solo pane vive l’uomo. C’è l’eco, nel titolo-messaggio di quella mostra, del grande tema che ha fatto da filo conduttore all’EXPO 2015: allora, infatti, si poneva la questione di come nutrire il pianeta. Qualche giorno fa, in Duomo Vecchio a Brescia, Mons. Giacomo Canobbio, teologo, Delegato vescovile per la pastorale della cultura, ha affrontato l’argomento mettendo in correlazione la poetica dell’artista Arcabas, pseudonimo di Jean-Marie Pirot, con la lettura di significativi passi biblici del Primo e del Nuovo Testamento. Sotto la lente d’ingrandimento del relatore si è potuto vedere come la bellezza sappia trasfigurare la vita di un uomo, anzi, di tutti gli uomini che le si accostino, divenendo essa stessa segno di misericordia. Emblematicamente l’intervento di Canobbio aveva per titolo Trasfigurati dalla bellezza.
Arcabas, nato a Trémery in Lorena (Francia) nel 1926, presente nelle collezioni pubbliche e private più prestigiose di tutto il mondo, trae la sua principale fonte d’ispirazione dalla Bibbia. La sua, più che arte sacra, è arte dello spirito, al tempo stesso capace di guardare le realtà della terra. Nella sua pittura, fortemente espressiva e segnata dalla forza dei colori, l’umano e il divino si compenetrano; temi e figure profane trovano spazio e giustificazione all’interno dei suoi cicli religioso-meditativi, che sono tutti tesi a indagare il mondo del mistero.
Mons. Canobbio ha passato in rassegna le opere della mostra, individuando in ciascuna di esse i tratti peculiari, di forma e di contenuto, che le caratterizzano. In testa a tutte, egli ha collocato quella che a lui sembra dare il criterio fondante all’approccio verso questo artista: il miracolo del cieco guarito.
Così, afferma Canobbio, “l’apertura degli occhi permette di guardare ciò che gli altri non vedono per aiutare altri a vedere, come è scritto al cap. 8, 23-26 del Vangelo di Marco: si tratta di un passo evangelico che l’artista, peraltro, sente in maniera davvero intensa. “Nel dipinto preso in esame non c’è paesaggio di contesto; le mani di Gesù sono circondate di luce, la stessa luce che riempie gli occhi del cieco; la differente apertura dell’occhio destro e di quello sinistro richiama la gradualità dell’azione di Gesù, quasi vada per tentativi; la bocca del già cieco è aperta a esprimere stupore; le mani del cieco sono giunte per invocare; il vedente non guarda Gesù, bensì l’osservatore o, più in generale, la realtà che gli sta di fronte. La notazione dell’evangelista è, infatti: «vedeva distintamente ogni cosa a distanza». È come se al cieco si aprisse davanti un mondo, non più semplicemente gli uomini. Arcabas, che non teme di dichiararsi credente, propone attraverso questo dipinto, una specie di autoritratto. È lui il già cieco che ora, pieno di stupore, vede, e invita a lasciarsi toccare dalle mani luminose di Gesù per giungere a vedere la realtà in modo nuovo, a stupirsi di essa come di fronte a qualcosa di meraviglioso, perché abitato dal mistero”.
Non c’è spazio per dare conto dell’intera relazione di Canobbio sull’argomento. Ricordo solo che, tra le cose più belle, ed anche più drammatiche, della mostra, Canobbio colloca l’Omaggio a Bernanos, “un monumentale polittico, ispirato al pamphlet I grandi cimiteri sotto la luna, potente requisitoria dello scrittore francese di fronte al carnaio della guerra civile spagnola”.
Cinque icone compongono l’opera, tutte marchiate dal senso del tragico, dall’ingiustizia e dal dolore, cui non sono estranei, come responsabili, anche membri della gerarchia ecclesiastica. Ma tra tutte prevale, in basso al centro, sotto la croce, l’immagine di una bimba innocente che innalza la scritta “Ego sum: nolite timere” (Ci sono io: non abbiate paura!).
Mettendo a confronto due eventi avvenuti a breve distanza l’uno dall’altro, l’inaugurazione a Salò della mostra di Sgarbi al MUSA, sulla bellezza de I tesori nascosti, e l’illustrazione teologica delle opere di Arcabas esposte in Duomo Vecchio a Brescia, ho colto senza difficoltà una distanza abissale tra due diverse modalità di approccio pubblico al tema della bellezza: l’uno, sacrale-rituale, del prete con la stola e l’aspersorio, benedicente autorità, popolo e opere prima del taglio del nastro; l’altro, privo di ogni mondana esibizione, nella cornice austera del tempio, con la semplice parola che cerca nella Bibbia gli agganci più pregnanti e fondati ad indagare il mistero.