Tel Aviv, Jaffa e i villaggi “scomparsi” [4]
gennaio 24, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Tel Aviv, Charles Clore park. Un bellimbusto, con canottiera attillata e bicipiti in mostra, sta facendo jogging, seguito a ruota da una donna giovane e procace, con cuffiette alle orecchie. Ti chiedi, osservando la loro noncuranza, se sappiano di correre su un cumulo di rovine. Questo immenso parco, intitolato a un magnate appartenente alla comunità ebraica inglese, è stato infatti costruito sulle macerie di Al-Manshiyya, un moderno villaggio palestinese inaugurato a inizio Ottocento e raso al suolo nel 1948. Al-Manshiyya è uno dei tanti, troppi, paesi palestinesi cancellati dalla mappa per far posto allo Stato ebraico. Zochrot, che in ebraico significa “ricordare”, è un’organizzazione israeliana che riconosce la Nakba, ossia l’epurazione di massa ai danni dei palestinesi nel 1948, e che si batte per vedere riconosciuto il loro diritto al ritorno, sancito da una risoluzione ONU. I numeri che vi snocciolano, durante il breve tour che, percorrendo il parco, vi porterà a Jaffa, sono impressionanti: più di 800 mila persone cacciate dalle loro terre; 531 villaggi distrutti; 40 mila palestinesi uccisi durante le operazioni di pulizia etnica. Del 44% della Palestina storica assegnato ai palestinesi dalla risoluzione ONU 181, Israele si è preso un altro 22% dopo la guerra del ‘67. Di questo 22%, il 60% è territorio occupato dall’esercito e dagli insediamenti dei coloni. La famiglia di Mike, la vostra guida, faceva parte di uno di quei villaggi e fu costretta a ripiegare su Gerusalemme, prima che anch’essa diventasse oggetto di una massiccia e violenta giudaizzazione.
Al-Manshiyya vantava una biblioteca e una moschea. Mentre la prima è stata distrutta e saccheggiata, la moschea è rimasta miracolosamente in piedi, ma solo perché le spese per la sua manutenzione sono a carico della popolazione palestinese, fatto che peraltro non impedisce che il luogo sacro ai musulmani sia periodicamente oggetto di attacchi e imbrattamenti da parte di giovani ebrei. Del villaggio sopravvivono altri due edifici. Il primo – una diroccata casetta a due piani – è assurto da Zochrot a emblema dell’indebita appropriazione simbolica di luoghi un tempo arabi, dato che sulla sommità della costruzione è stata apposta una monumentale stella di David. Nell’altro fabbricato risparmiato dai bulldozer è stato allestito un museo militare, l’Etzel museum, dal nome del gruppo sionista di estrema destra che seminò terrore durante gli anni del mandato britannico. Sulla targa commemorativa troneggia il simbolo del movimento, un fucile disegnato sulla cartina stilizzata del territorio palestinese e anche giordano (“abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno”, si saranno detti) e la scritta, inquietante, “solo in questo modo”. Ti si gela il sangue. Dietro al museo sorgono file di grattacieli pacchiani e fuori posto, mentre davanti c’è il mare. Un mare respingente e inespressivo, nel quale troneggia uno dei tanti divieti israeliani: no swimming, recita infatti un cartello, a caratteri cubitali.
Mentre la distanza che vi separa da Jaffa si va accorciando, i volontari di Zochrot vi raccontano che Etzel fu responsabile dell’occupazione della città, occupazione che l’iscrizione sul museo chiama “liberazione”. Più di 70 mila palestinesi furono espulsi via mare, verso Beirut o Gaza, costretti ad abbandonare quella che fino al 1948 era la più importante città della Palestina, in quanto snodo portuale per i pellegrini diretti in Terra Santa. Oggi gli arabi di Jaffa, che costituiscono un quarto degli abitanti, si arrabattano vendendo falafel e tappeti a villeggianti perlopiù ignari del fatto di essere in una delle più antiche cittadine cisgiordane, ridotta a sottodistretto di Tel Aviv. Con queste premesse, le vostre due ore da turisti non possono che essere amare e insofferenti. Penetriamo negli stretti vicoli di quella che un tempo era un’antica e fiorente città araba, e che oggi è diventata una “colonia artistica israeliana”. Gli artisti, a volte, riescono a essere davvero sensibili! scrive Suad Amiry nell’irriverente Sharon e mia suocera. Saranno le ricostruzioni storiche di Zochrot, i cartelli posti dalla municipalità della capitale israeliana che millantano le antiche radici ebraiche della città, a voler legittimare un ritorno in una terra che non era loro, sarà forse l’anfiteatro deludente, ma non vedi l’ora di andartene. Una pioggia scrosciante e il puntuale e ormai immancabile yalla – andiamo – di Mike vi strappano da quella località fredda e inospitale e vi portano verso una casa dove respirerete a pieni polmoni accoglienza, coraggio e libertà. Ad attendervi, sull’uscio della porta, ci sarà il partigiano Samer Issawi.