Sii felice oggi, per esserlo anche domani: il “carpe diem” nei secoli
maggio 29, 2015 in Approfondimenti da Nicola Tassello
Tra vent’anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto, ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite. Con queste parole, Mark Twain ci ricorda che sempre, prima o poi, ci si ritrova a confrontarsi con il proprio passato, con le scelte compiute, con gli obiettivi raggiunti e, ancor di più, con quelli non raggiunti, dato che la cocente delusione per gli insuccessi tende a surclassare qualsiasi appagamento ottenuto. Twain, tuttavia, sembra aver trovato la soluzione al problema di non aver vissuto abbastanza intensamente gli anni trascorsi, invitandoci a “cogliere l’attimo”, ad abbandonare le convenzioni e i percorsi prefabbricati che sempre più spesso imprigionano la nostra vita, per riempirla di qualcosa a cui un giorno guarderemo con soddisfazione e orgoglio.
Questa è una tematica trasversale a tutte le epoche, tanto che molti scrittori, filosofi, eruditi vi si sono confrontati, giungendo, nella maggior parte dei casi, alla stessa soluzione proposta dall’autore di Tom Sawyer. Uno dei motti più celebri nel quale è condensato questo concetto è il carpe diem oraziano, due semplici parole che sembrano racchiudere il segreto di una vita felice, senza rimpianti: cogli l’attimo, il singolo istante che, se vissuto pienamente, si somma agli altri, così che alla fine, guardando indietro, la vita sarà fatta di questi “attimi pieni”. Viene ora da chiedersi di cosa debbano essere ricolmi questi momenti: di ogni singola cosa che in quell’istante ci renda davvero felici! Scrive, secoli dopo, Jim Morrison: Non pentirti di qualcosa che hai fatto, se quando l’hai fatta eri felice.
Spesso però il carpe diem di Orazio viene frainteso, dando di esso una lettura solamente parziale e prendendone gli aspetti più superficiali. Nelle scuole molti studenti si imbattono, durante i loro studi di latino, in questo fatidico “cogli l’attimo”, in un momento della loro vita – la giovinezza – in cui l’invito viene assimilato di buon grado, fermandosi però alla semplice traduzione letterale, senza andare a fondo nel concetto. Orazio, da buon epicureo, non predicava certo il godimento sfrenato e passionale di ogni singola occasione che capita nella vita, anzi! Il suo proposito era proprio quello di riempire quell’istante di libertà dalla libidine, per non esserne prigionieri. Un altro elemento che però bisogna considerare è la maggiore brevità della vita nell’epoca in cui scrive Orazio, e quindi un’esperienza prematura con il pensiero della morte.
In questi ultimi decenni, invece, chi parla della brevità della vita e della necessità di assaporare ogni singolo aspetto dell’esistenza con pienezza viene spesso etichettato in modo negativo, poiché ne risultano implicite la riflessione e la consapevolezza che, un giorno, arriverà la tanto temuta morte. Di conseguenza, finché si predica l’importanza del “carpere diem”, sono tutti disponibili ad ascoltare; poi, appena lo si collega al fatto che ciò è funzionale a non essere delusi dalla vita quando un giorno si guarderà indietro e a rifiutare le strade imposte dal pensiero comune, la gente inizia ad allontanarsi. In realtà, dal momento in cui “abbandoniamo i porti sicuri”, non serve più essere spaventati: molti hanno paura della morte perché temono di non aver vissuto abbastanza e di non aver lasciato un segno tangibile di sé in questo mondo. Nella nostra società frenetica, tuttavia, comprendiamo come molte persone abbiano già smesso di vivere o, meglio, non abbiano mai iniziato, poiché spendono i loro giorni preziosi nella costruzione di un futuro solido per sé e per i propri figli, lavorando almeno otto ore al giorno e, come mette in luce un’efficace immagine proposta da Calvino in uno dei racconti di Marcovaldo, trascorrendo le restanti ore della giornate a spendere ciò che si è guadagnato per consumare prodotti perlopiù superflui. Questa perseveranza verso la propria famiglia, il desiderio di sistemare tutto finché si è in tempo è lodevole, ma… non è vita.
Noi possiamo vivere solamente il presente, non il futuro, che ancora non ci appartiene. Ovviamente la programmazione è necessaria, ma vivere solo per quello che sarà significa dimenticarsi quel famoso “qui ed ora”. Forse tutto ciò per cui le persone lavorano si potrà avverare, ma può accadere anche il contrario. E allora, a che cosa gioverà l’aver procrastinato in continuazione l’appagamento personale per qualcosa che poi non c’è? In qualsiasi momento la nostra esistenza può cambiare radicalmente, quindi, oggi più che mai, siamo chiamati a vivere con intensità ogni unico e irripetibile attimo, così da poter dire “sì, ho compiuto scelte che mi hanno reso migliore”. La gioia che ci riempie veramente poi resta e, nei giorni bui, ci dà la forza per andare avanti senza arrendersi, per lottare; ma se abbiamo vissuto blandamente, solo bruciando tappe nella corsa dell’esistenza, poi ci troveremo vuoti, delusi…ed è questa, più di ogni altra malattia o disgrazia, la cosa più brutta che ci possa accadere: la consapevolezza di aver sprecato il proprio tempo, di non aver realizzato nulla di veramente personale, unico, irripetibile. Si tende a immaginarsi eterni, a pensare se ci si lascia scappare un’occasione, ce ne sarà sempre un’altra il giorno dopo: bella ed ottimista è questa prospettiva, ma bisogna anche riflettere sull’eventualità che potrebbe non esserci quel “domani”, che quella potrebbe essere stata l’ultima delle occasioni; bastava viverla pienamente, per essere poi felici.
Molti ricercano la gioia, credendo che essa risieda nelle grandi esperienze, nei viaggi fantastici, nell’accumulo delle ricchezze, quando in realtà essa si compone delle tante piccole cose vissute ogni giorno. Sugli altari di alcune sacrestie una frase ricorda al sacerdote, prima di entrare in chiesa, celebra questa Messa come fosse la prima, come fosse l’ultima, come fosse l’unica. Ecco, questo motto può diventare quello che anima la nostra vita, non certo relativamente alla Messa, quanto piuttosto al “diem” che abbiamo davanti, venendo così riformulato: vivi ogni giorno come fosse il primo, come fosse l’ultimo, come fosse l’unico. Come se fosse il primo, pieno di aspettative, di sogni, di speranze; come se fosse l’ultimo, non abitato da rimpianti, ma dalla voglia di riempirlo con tutto quello che abbiamo sempre desiderato fare, ma che per paura abbiamo abbandonato; come fosse l’unico, l’unica possibilità che abbiamo per essere felici, che dobbiamo cogliere per non essere poi delusi.
Comprendiamo quindi quanto sia attuale questa tematica, questo invito di Twain a esplorare. Sognare. Scoprire, a non rinunciare ai sogni, ma a realizzarli ogni qual volta ne abbiamo l’opportunità. Ciò non significa vivere alla giornata, dimenticandosi del futuro, ma riempire quella giornata di esperienze vere che poi restano. A noi viene dato questo giorno: rendiamolo qualcosa di speciale; viviamo per cose grandi, perché di banalità sono capaci tutti, e la grandezza non è altro che la realizzazione di quel desiderio che ora ci rende pieni.