Settant’anni dalla Liberazione, tra revisionismo, abusi storici e neofascismo
aprile 25, 2015 in Approfondimenti da Sonia Trovato
Ginzburg agonizzante ha detto:
«Guai a noi se non sappiamo fare altro che odiarli [i fascisti]».
Ma ancora oggi in verità non so fare altro.
(Beppe Fenoglio, Diario)
Rossi e neri sono tutti uguali? Ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi? è la celebre frase che l’avventore di un bar si sente strillare da un Nanni Moretti infervorato in Ecce Bombo. Pensando al revisionismo spicciolo messo in atto, con zelo e costanza, negli ultimi vent’anni, verrebbe da dire che non siamo in un film di Alberto Sordi, ma nell’Italia che si appresta, fiaccamente e ipocritamente, a festeggiare il settantesimo anniversario della Liberazione dal Nazifascismo.
C’è già da tirare un sospiro di sollievo se la festività non è stata estromessa dal calendario delle celebrazioni civili, come aveva proposto uno dei più fedeli consiglieri di Berlusconi – Gianni Baget Bozzo –, indicando la Resistenza come un movimento impopolare che “divise la coscienza nazionale” e proponendo di sostituire il 25 aprile con il 4 novembre, data di termine della Prima guerra mondiale. Ed è già un miracolo che l’ex democristiano attirato poi nell’orbita forzista abbia usato l’espressione “Resistenza” e non quella, tanto di moda nel giornalismo sensazionalista che si spaccia per storiografia, di “guerra civile”. De Felice, Pavone, Pansa, Montanelli sono solo alcuni dei nomi più noti che hanno speso litri d’inchiostro per svilire il ruolo della Resistenza nel traghettare il Belpaese fuori dal Ventennio fascista e, contemporaneamente, per fare luce sui truci crimini compiuti dai partigiani contro i repubblichini, come se vent’anni di dittatura e di repressione non fossero sufficienti a spiegare l’efferatezza che contraddistinse alcune azioni partigiane. De Felice, tuttora celebrato come uno dei più autorevoli studiosi del fascismo, propose addirittura di abolire, in quanto inutile relitto di un’epoca ormai passata, la norma transitoria della Costituzione che punisce la ricostituzione del Partito Fascista. Era il 1987. Nel novembre 2011 ci riprovò, inutilmente (ma chissà per quanto?), il PDL.
Ma i pidiellini e tutti i nostalgici possono dormire sonni sereni: la norma, pur rimanendo sulla carta costituzionale, non impedisce che partiti dichiaratamente fascisti, come CasaPound o Forza Nuova, possano presentarsi alle elezioni, utilizzare spazi pubblici per i propri dibattiti e mandare in coma, godendo della piena impunità, i militanti dei centri sociali, come è successo a Cremona tre mesi fa. Il tutto con il silenzio e talvolta l’esibita legittimazione da parte degli altri leader politici. Beppe Grillo, parlando con Simone Di Stefano, allora candidato per CasaPound alla presidenza della Regione Lazio, sostenne che alcune idee del movimento sono condivisibili. Un po’ come dire che il fascismo, fatta eccezione per le leggi razziali su cui pesò la cattiva influenza del tiranno Hitler – in grado di plagiare, con chissà quale intruglio magico, un altrimenti mansueto Mussolini –, fu un regime benevolo, dato che “Mussolini non ha mai ammazzato nessuno. Il Duce mandava la gente a fare vacanza al confino” (Berlusconi, 2003).
E Matteotti, Gramsci, Gobetti, i fratelli Cervi? Gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari, gli oppositori politici deportati nei lager? Sui primi due è già passato il rullo revisionista più alacre. Matteotti, una delle prime e più note vittime della violenza squadrista, è, da qualche anno, descritto come uno “strozzino e violento estremista”. Così ha il coraggio di titolare “Libero” nel luglio 2011, riprendendo le argomentazioni di un libro di Giampaolo Romanato uscito lo stesso anno. E a Gramsci, già mandato in soffitta dall’intero entourage dell’attuale centrosinistra, tocca invece la tesi del complotto sovietico: morì in carcere per mano fascista, ma a ucciderlo davvero fu il silenzio e l’indifferenza di Palmiro Togliatti, sul quale il filosofo sardo non aveva speso parole generose. Chiaro, no? Nemmeno a Primo Levi, sopravvissuto a undici mesi di stenti e barbarie ad Auschwitz, è stato risparmiato un bagno in acque revisioniste: da un episodio autobiografico che l’autore racconta nel Sistema periodico – la sofferta decisione di uccidere due partigiani per fatti di incompatibilità con la lotta di liberazione – Sergio Luzzatto ha tratto un intero volume, volto a rilevare l’ambiguità e le ombre dello scrittore della Shoah.
Dalla svalutazione degli antifascisti alla riabilitazione dei fascisti il passo è breve. Gianfranco Fini – ex segretario del Movimento Sociale Italiano, colui che, non troppi anni fa, definì Mussolini “il più grande statista del secolo” (1994) – è il simbolo di un revisionismo storico talmente normalizzato da permettergli di veleggiare indisturbato fino alla presidenza della Camera. Gasparri, che rivendica con orgoglio il suo passato missino e arriva a confessare di aver più volte cantato slogan che inneggiavano alle dittature ancora in corso in Europa (“Basta con i bordelli. Vogliamo i colonnelli!”), è oggi alla vicepresidenza del Senato. Alemanno, altro missino della prima ora, è stato per cinque anni primo cittadino di Roma. Stessa gavetta per La Russa, ex ministro della Difesa del governo Berlusconi. Ma il caso più eclatante resta forse quello di Alessandra Mussolini: con un cognome così impronunciabile e con una militanza fracassona nel MSI, l’ex attrice è arrivata tra gli scranni di Palazzo Madama.
Quest’invasione di fascisti, che fecero carriera in un partito che nel 1992 celebrò in pompa magna il sessantesimo anniversario della Marcia su Roma, ha prodotto i suoi effetti. Nel 2003 alcuni parlamentari di AN hanno presentato alla Camera la proposta di legge volta a considerare i combattenti della Repubblica di Salò “militari belligeranti, equiparati a quanti prestarono servizio nei diversi eserciti dei paesi tra loro in conflitto durante la Seconda guerra mondiale”. È la vecchia storia degli italiani bravi gente in balia dei cattivoni tedeschi, arricchita di un ragionamento ulteriore: se il periodo ’43-’45 è da considerarsi una guerra civile, allora meriti e colpe vanno equamente spartiti tra partigiani e repubblichini. Luciano Violante, nel suo discorso d’insediamento alla presidenza della Camera, sembra aver compreso prima di altri che per un ex comunista sottolineare i motivi della scelta dei “ragazzi di Salò” e proclamare la necessità di una memoria condivisa non è più un tabù. Sempre in nome della memoria condivisa, Gianni Morandi, oggi idolo dei social network, ha proposto di far cantare al Festival di Sanremo 2010 sia Bella ciao sia Giovinezza. Dopo le proteste, si è deciso, in nome di un’inquietante par condicio, di non suonare nessuno dei due brani.
Un altro cavallo di battaglia dell’Italia che equipara chi combatté per la libertà e chi scelse il Terzo Reich è il mito delle foibe, sancito di recente con l’istituzione del Giorno del Ricordo. I fatti, per chi li conosce, maturarono in un clima di colonialismo feroce da parte dell’Italia sul confine orientale, colonialismo che produsse oltre un milione di morti e che fomentò un odio incondizionato verso gli italiani. Quanto all’esodo, anch’esso commemorato dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo, ci si dimentica di segnalare che la perdita dell’Istria fu una conseguenza dei trattati di pace. Due film – Fascist Legacy e Lion of the Desert – testimoniano le atrocità commesse dall’esercito italiano durante l’occupazione della Jugoslavia e della Libia. Il primo fu acquistato dalla Rai e mai mandato in onda, mentre il secondo fu bloccato dal Governo Andreotti, che lo ritenne “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Meglio affidarsi alla memoria edulcorata di film come Mediterraneo di Salvatores.
Dunque, rossi e neri sono, nell’Italia contemporanea, considerati tutti uguali? No, i rossi sono diventati, nell’immaginario collettivo, figure assai più bieche di qualsiasi generale fascista. Berlusconi, nel 2006, fece rischiare all’Italia un incidente diplomatico con la Cina, asserendo che “Mao e i comunisti non mangiavano i bambini, ma li bollivano per concimare i campi”. D’altro canto, il Cavaliere ha più volte ribadito di considerare l’ideologia comunista come “la più criminale e disumana nella storia dell’uomo”. In vent’anni si è così insinuata l’idea di cinquant’anni di dittatura comunista in Italia. Pazienza se il PCI ha dato un apporto considerevole alla lotta resistenziale, se i comunisti in Italia avevano, già nell’immediato dopoguerra, accettato la dialettica democratica, partecipando alla Costituente, se il comunismo italiano non ha mai ucciso una mosca e se non è praticamente mai stato al governo. La nuova vulgata anticomunista è riuscita a far passare l’idea di una rigida egemonia culturale da parte del PCI, tale da costringere Marcello Dell’Utri e Mariastella Gelmini a porsi l’obiettivo di riscrivere i libri di storia, liberandoli dalle deviazioni marxiste. Sulla presunta dittatura culturale del PCI vengono scaricati anche gli insuccessi musicali: “La sinistra mi ha deluso. Da quando avviò le epurazioni dei cantanti melodici: io, Sergio Endrigo, Bobby Solo, Nada, Little Tony, Nicola di Bari, Bruno Lauzi. Non eravamo affini a un certo disegno politico: fidelizzare le masse. E dunque il PCI cooptò i cantautori impegnati: Venditti, Dalla, De Gregori. Che per carità, erano pure bravi, ma erano soprattutto funzionali a un progetto” denuncia, nel settembre 2005, il cantante Don Backy. Le preoccupazioni di Dell’Utri e Gelmini sono legittime: i libri di storia dovrebbero segnalare che il comunismo italiano destituì i neomelodici.
E così, la nostra generazione ha trascorso l’adolescenza condividendo i banchi di scuola con teste rasate con la passione per la musica Hardcore e un’esibita nostalgia per un ventennio mai vissuto e nemmeno studiato sui testi scolastici. Abbiamo visto passare in tv le immagini dell’inaugurazione di un parco intitolato a Rodolfo Graziani, che costò alla Regione Lazio 130 mila euro. Non sappiamo nulla di Gramsci ma conosciamo a memoria, grazie a una fiction Rai, la vita di Giorgio Perlasca. Sappiamo che, grazie a Mussolini e alla bonifica dell’Agro Pontino, possiamo godere di bellezze architettoniche imperdibili, come Latina o Sabaudia. Apprendiamo che un ex fascista può essere accolto tra mille cerimonie in una sinagoga, infilarsi una kippah in testa e diventare poi presidente della Camera. Sappiamo che un personaggio televisivo può far sentire, in un documentario, la versione integrale di Faccetta nera senza sotterrarsi per l’imbarazzo. Scopriamo che i fascisti non furono così brutti e cattivi, perché in fondo erano ragazzi ventenni tanto quanto i partigiani. E non è che i partigiani fossero stinchi di santo, assettati com’erano di vendetta e sangue.
Ecco, in questo clima stucchevole e ipocrita di memoria estesa e condivisa, rivendicare il diritto di essere di parte – Vivo, sono partigiano scriveva Gramsci –, rivendicare la sacrosanta libertà di non considerare una vita persa per la democrazia uguale a quella persa per la dittatura, è, forse, ancor prima che un diritto, un dovere civile e morale.
BUON 25 APRILE!