Il segreto del tasso [9]
maggio 20, 2017 in Letteratura da Silvano Danesi
Il sole, superando il profilo maestoso della Montagna di ferro, prese il suo posto nel cielo. Gwydd, abituato al risveglio prima dell’alba, si era seduto su un masso accanto alla soglia della Casa comune dei druidi. Tutto intorno la rugiada, che imperlava le tenere erbe del prato e le corolle dei fiori primaverili, evaporava lentamente, danzando nell’aria fresca e profumata di fragranze di bosco. La terra era animata da una lavorio incessante di piccoli esseri indaffarati a procurarsi il cibo, a bere le ultime gocce del cielo depositatesi nel corso della notte.
Una salamandra dal manto nero punteggiato di giallo, si muoveva lentamente sulla pietra che fungeva da sostegno e argine alla vasca nella quale si gettava un piccolo, costante flusso d’acqua. Il silenzio regnava in quel luogo incantato, interrotto a tratti dal canto degli uccelli che avevano nidificato sugli alberi vicini e dal gracchiare di due cornacchie che volteggiavano alte nel cielo e, di quando in quando, si buttavano in picchiata verso il cerchio di forza, le cui pietre, sapientemente allineate, segnavano da molti grandi anni la singolarità di un’area considerata sacra da tempo immemorabile.
Il vecchio druida avvertì una fitta alla parte destra dell’addome: un dolore che lo tormentava da qualche tempo e le cui cause erano a lui ben note. Posò le mani sulla parte dolorante, facendo affluire energia. Non era ancora giunto il momento di dar retta al corpo. Da una piccola capanna uscì una donna, né vecchia, né giovane, vestita con un abito azzurro. Sulla fronte aveva il segno della Dea: una falce di luna blu, a indicare la sua funzione di sacerdotessa.
Delicatamente toccò Gwydd sulla spalla sinistra e lo invitò ad entrare. Il vecchio si alzò con fatica e la seguì. La stanza era spoglia, ma pulita. Su un tavolo di legno era apparecchiata una ciotola. La donna versò un infuso bollente di erbe, che trasse da un paiolo di rame che bolliva sul fuoco. All’infuso aggiunse del miele e lo porse a Gwydd, che lo sorbì , ritrovando, mentre il liquido scorreva, la forza e la pace. Il dolore svanì.
Negli occhi del vecchio saettò un lampo di luce e in quel lampo la sacerdotessa scorse qualcosa di antico, di conosciuto, di famigliare.
All’improvviso l’aria si fece spessa. La vista si annebbiò e negli occhi della mente la donna vide qualcosa che veniva a lei dalle profondità del passato.
***
Una giovane sacerdotessa era uscita di primo mattino. Le piaceva camminare tra le felci, bagnarsi con la rugiada che imperlava i prati e riluceva ai primi raggi del sole prima di sciogliersi evaporando nell’aria.
Il bosco profumava.
Nella grande ansa del fiume l’acqua fluiva lenta, verde, pigra.
Dalla casa sulla riva saliva un filo di fumo. Il camino era in pietra, come la base, affondata nel terreno sottratto alla palude da sbarramenti di pali e di sassi. Le pareti, trattenute, da grossi tronchi, erano di assi e di paglia impastata con il fango. All’interno poche supellettili, un letto di frasche, ricoperto di pelli e una quantità di ciotole e di vasi, colmi di oli profumati, di erbe essicate, di radici sminuzzate.
La sacerdotessa era giovane, ma in quella casa sul fiume abitava già da molto tempo. Era stata educata sin dalla sua infanzia da donne vestite di lunghe tuniche blu, in un’isola in mezzo alla palude, raggiungibile solo per vie segrete, celate alla curiosità degli uomini dalla nebbia biancastra che galleggiava costantemente sull’incerto suolo di torba.
Ogni giorno la giovane si alzava presto. Il bosco l’attendeva con i suoi segreti. Quel mattino si stese sull’erba. Giocava a dare un nome alle nuvole bianche che si spostavano verso est, mutando lentamente di forma, a volte unendosi tra di loro, a volte separandosi, in una danza gioiosa, nello scenario azzurro del cielo.
Gwydd vedeva nella mente di lei ricordi di un tempo lontano, di una madre amorevole, dalla quale si era allontanato per seguire un vecchio saggio, che lo aveva portato tra i druidi, per iniziare la sua lunga istruzione.
***
Era giunto il tempo di Beltane.
Gwydd, dopo aver annunciato Aldebaran, aveva assistito ai riti in silenzio e con sguardo severo, come si addiceva al suo ruolo. In cuor suo c’era gioia, partecipazione divertita. Ogni gesto che aveva visto molte volte, gli sembrava inconsueto e assumeva nuovi significati.
Il vecchio druida guardò il cerchio di fuoco seguendo il ritmo delle fiamme, il loro svilupparsi, intrecciarsi, ergersi verso il cielo, dove sfavillavano in migliaia di corpuscoli di luce. Avrebbe voluto essere in mezzo a quella luce che scaturiva dal sacrificio dell’albero e che dalla terra saliva al cielo. La sua età non gli consentiva di confondersi con l’eccitata catena umana che danzava nell’aria infuocata, spingendo gli armenti tra le vampe dei fuochi e il fumo. La sua mente però poteva giocare ancora con quelle lingue di luce.
Gwydd divenne immobile. I suoi occhi si chiusero e la sua consapevolezza raggiunse il centro del cerchio. Il corpo fisico del vecchio druida era immobile, impietrito, ma la sua essenza danzava tra le fiamme. Divenne egli stesso una lingua di fuoco. Intrecciata alle altre che si allungavano verso la volta stellata. Provava l’ebbrezza dell’ascesa, della vertigine, della libertà, la gioia della trasmutazione.
Gwydd era il fuoco; era i fuochi; era la luce danzante di mille fiamme. Ad un tratto le lingue di fuoco di tutte le pire cominciarono ad intrecciarsi, in una spirale. La spirale, salendo, trascolorava, diventava una corda d’argento che ondeggiava come una gomena appesa all’universo.
Gwydd volteggiava nel cielo stellato. La sua veste era intessuta con le fiamme che si mescolavano alle pire. Il suo viso era argenteo come la gomena del mondo. Ancora una volta, forse l’ultima, era diventato il Merlino, unendo il fuoco della terra agli spazi infiniti, la vita degli uomini ai segreti arcani dell’universo.
Ad un tratto, quando ormai sembrava che nulla e nessuno avrebbe mai potuto calmare gli animi e moderare l’isteria e la furia della gente, il musico prese a suonare una nenia più lenta e composta. Gli animi si acquietarono e tutti presero ad uscire lentamente dal cerchio magico, ansanti, sudati e neri per la fuliggine lasciata sui loro corpi dalle fiamme. Tutti, con gli occhi ancora stravolti dall’isteria e con le membra ancora eccitate dal furore, si posero in riverente attesa attorno all’enorme braciere, intonando ad alta voce il peana del clan. Le fiamme erano quasi del tutto spente, la brace rosseggiava allegramente al centro della spianata, il bardo suonava lentamente, i ragazzi scalpitavano nell’ansia dell’attesa, gli anziani continuavano a tergersi il sudore dei corpi e ad urlare la loro furia al cielo, quando l’officiante si mosse verso il centro dell’enorme falò e, sollevando una miriade di scintille, smosse la terra con un nodoso bastone per fare uscire dalla camera sotterranea i sette guerrieri predestinati alla prova di coraggio: restare sepolti sotto una coltre di fuoco con le lingue saettanti verso il cielo.
Alla vista di quegli armati, che fuoriuscivano dalle viscere della terra, con i corpi anneriti dal fumo e gli occhi dilatati, sbattendo, con cupo rimbombo, le spade contro gli scudi di legno e di bronzo, l’urlo della gente si alzò altissimo e violento, riecheggiando contro i fianchi dei monti, spaventando gli animali della foresta, fino ad assordare il Signore del Bosco Sacro. Il suo popolo era vivo e forte. Niente e nessuno lo avrebbe mai sconfitto in battaglia.