Sapore di mare, luce di faro
agosto 12, 2022 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
È impossibile che chi vede il mare per la prima volta o vi ha navigato per piacere o lavoro, o semplicemente ama nuotare nell’acqua salata, ecco, è impossibile che nei suoi sogni non alberghi il mare. Un essere palpitante e senza confini, il corpo di un amore che può anche fare paura, quel 71% del globo che riduce la Terra a una striscia residuale a possibile scomparsa. “Uomo libero, sempre amerai il mare” scriveva Baudelaire, con verso suggestivo e falso: ad essere gentili, metafora della vita umana. Quando venne costretto dalla famiglia a imbarcarsi per Calcutta, il poeta maledetto scese al secondo scalo, preferì la scrivania per celebrare incanti marini.
Il mare è una realtà non un’allegoria della vita umana o un gesto estetico, e ce lo ricordano due libri pubblicati recentemente da Ediciclo, un editore di avventure che spesso va oltre il pedale. Due suoi libri marini vanno letti: Fabio Fiori, Abbecedario adriatico. Natura, cultura e sapore; l’altro, Claudio Visentin, Luci sul mare, viaggio tra i fari della Scozia sino alle isole Orcadi e Shetland, con disegni di Alessandro Alghisi.
Libri molto diversi: il primo indugia, voce per voce, alla scoperta di un mare a volte snobbato: L’Adriatico è un amore difficile. Perché spesso il cielo è grigio, se non nebbioso, perché spesso l’acqua è verde, se non torbida. Amore che si nutre però di vita e leggende, relitti di navi e archeologia, popoli, cultura, sapori, il tutto con aggiunte di traslati del linguaggio locale, a volte anche slavo. In Adriatico il vento da sud-ovest, che tutti conoscono come Libeccio, se non vuoi fare il piccione, meglio lo chiami Garbino, torrido, a raffiche, pazzo lungo la costa occidentale, umorale nei suoi noti effetti sul carattere di donne e uomini. La regina indiscussa dell’Adriatico è però la Bora, scura e chiara, da secoli tormento di marinai, poeti, portolani, giornali e libri, una forza epica che viene da lontano, bella e terribile. Nel marzo 2011 superò i 100 km all’ora, strappò gli ormeggi dell’Ursus, la centenaria gigantesca gru galleggiante e la mandò per ore alla deriva nel golfo di Trieste.
L’Adriatico è, più di tutti, rotta di esuli, vinti e vincitori, poveri e pirati, gente che fugge e altra che uccide, finchè le parti non si invertono.
Lì si incontrarono greci, fenici, cartaginesi e romani, italiani e sloveni, austriaci e ungheresi, croati e bosniaci, serbi e albanesi. Le guerre trasformano Ragusa in Dubrovnik, Fiume in Rijeka, fughe e migrazioni che da qualche decennio sono diventate spettacolo televisivo.
La storia antica è più dolce perché sfuma nel mito: Diomede ed Enea, la rotta dell’ambra che scendeva dal nord e per mare finiva alle colonie greche che la chiamavano elektron per le lacrime delle Elidi che piangevano il tragico destino del fratello Fetonte. Ha quasi un secolo la scoperta col restauro di antichi bronzi: quello di Fano (1964), nudo di giovane atleta attribuito a Lisippo, oggi al Getty Museum; quello di Brindisi, una nave oneraria di età tardo-romana con centinaia di pezzi dal IV secolo a. C. al II d.C., visibili al museo della città; quello di Lussino, l’atleta che si deterge, bronzo con preziose labbra in rame che rendono il suo sorriso enigmatico e seducente. L’abbecedario si conclude a tavola: le sarde fritte in bianco, o quelle – antichissima ricetta- in saòr: pesce fritto su cui si versa una salsa d’aceto con uva secca, pinoli, cedro candito e pan pepato, ricetta tradotta anche in poesia:
De le droghe spanda bon odor,
dei cedrini, de l’ua, qualche pignòl,
sardele, ma intendemose, in saòr.
Del tutto diversa è la voce “faro”, voce antica derivata dal greco Pharos. Segnali intermittenti, a volte di colore diverso, i riferimenti per il marinaio che non conosceva navigatori appesi ai satelliti e per chi ancora oggi preferisce il vecchio carteggio e “il cerchio capace”.
Qui ci agganciamo al libro di Visentin, Luci sul mare, un iperbolico viaggio lungo la Scozia, un po’ a piedi, su minuscoli aerei ad elica, su battelli da capitani temerari, sempre verso nord a caccia del faro più lontano. Oltre le Ebridi, le Orcadi, all’ultima collina delle Shetland all’incontro dei venti più violenti e delle onde di trenta metri cresciute in centinaia di km che si abbattono e fanno fremere i fari la cui costruzione ha impegnato generazioni di illustri ingegneri.
Su tutte, le generazioni della famiglia Stevenson, quella dell’immortale scrittore che ci ha fatto sognare con L’isola del tesoro e ci ha inchiodato alla sedia con Jekyll e Hyde. Fari alti sull’acqua, costruiti in condizioni impossibili con la pietra del posto o con mattoni, ermetici (ci fosse una fessura, il faro andrebbe subito a pezzi), fari non per entrare in un porto, ma per star lontano da loro e non finire naufraghi su qualche roccia, cioè morti. Ma la violenza dei venti (il più forte misurato era di 300 km orari, poi si ruppe il misuratore) le correnti, le maree, li hanno ugualmente circondati di relitti e di storie cupe.
I fari ora si illuminano da terra, elettronicamente, ma fino a pochi anni fa avevano uno o due custodi che badavano alla luce, la alimentavano con cherosene o altro, tenevano uno scrupoloso diario che veniva poi controllato, restavano anche bloccati anche per settimane finchè il mare permetteva che fossero sostituiti. La famiglia viveva a terra, pochi soldi, una baracca ridossata, lavori agricoli, qualche pecora, bassi arbusti perché il vento non sopporta altro.
Il faro più a nord in assoluto, quando per visitarlo Visentin ha trovato una barca e un rematore (chissà chi era quel pazzo e da che isola di pazzi veniva), ecco che riceve da Edimburgo l’ordine di non andare, l’approdo non è più riparato, la scala è pericolosa, il faro è raggiungibile solo in elicottero. Là l’Atlantico incontra il Mare del Nord. Sull’ultima isola appena a sud del faro vive da solo un artista: sei mesi di luce, sei di buio, solo il buio ti permette di comprendere davvero la luce. Di notte il fascio del faro sembra scolpire l’oscurità, i contorni sono netti, la luce prende corpo e si fa largo nelle tenebre senza cancellarle.
Il fascino (forse fallico?) del faro mi ricorda The ligthouse di Virgina Woolf, libro che, lei scrive umoristicamente, fu molto venduto presso le associazioni dei fari. E altri due vecchi libri inglesi che mi spinsero al largo con una vela: Adlard Close, Sailing & Cruising for the small boat owner, ed. London Batsford, 1937, un libro ricchissimo, molte fotografie, l’evoluzione della vela nei primi decenni del Novecento, disegni meticolosi su come costruire una barca nei dettagli, l’attacco dell’albero, del timone, la fatica, il coraggio sull’onda. L’altro più recente e di immenso piacere e utilità On the map, why the world looks the way it does, di Simon Garfield, pure ricchissimo di disegni, dalle mappe più antiche alle ultime fotografate dai satelliti, ed. Profile Books, 2012. Chi scivola tra le onde, ama le mappe che sono il libro su cui leggere il mare. Chi prende le onde in faccia sa che il mappamondo non è il globo perché una sfera non può stendersi su un rettangolo, sa che l’ortodromia non è la lossodromia, sa che solo una mappa lo porterà da qualche parte.
di Mario Baldoli