Samer Issawi: la gioventù rubata [5]
febbraio 7, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
La famiglia Issawi vive a Issawiya, un sobborgo della periferia di Gerusalemme. Non ti è chiaro se sia stato il luogo a dare il nome agli Issawi o viceversa, ma poco importa. Il pullman sta per arrivare a destinazione, facendosi strada tra le viuzze strette e tra i bambini che bighellonano nella via, quando, improvvisamente, due ragazzini iniziano a tirare pietre contro il vostro autobus. Un sasso colpisce il finestrino proprio dove hai appena appiccicato il naso, per riuscire a scorgere qualche dettaglio dal vetro appannato da una pioggia incessante e torrenziale. Augurandoti che la Terza Intifada non abbia inizio proprio in quel momento, proprio contro di voi, ti chiedi se sia stata la vostra targa gialla israeliana a farli scattare (l’apartheid in Palestina non risparmia niente) o l’idea che qualcuno stia facendo turismo umanitario per poi riprendere la comoda vita di sempre, abbandonandoli in quella terra occupata che infrange ogni giorno il loro diritto all’infanzia. Tuttavia l’autista, che forse non si accorge di nulla, prosegue imperterrito e vi lascia di fronte alla casa di Samer. Provando a scacciare dalla mente l’espressione arrabbiata e disillusa dei due lanciatori di pietre, cerchi di goderti l’emozione di poter finalmente dare un volto e una voce a quello che era per te soprattutto un nome e un’icona. “Free Samer Issawi” avevi scritto un giorno su una banconota, partecipando alla campagna volta a salvare la vita a quel giovane coraggioso, che si era sacrificato a più di duecento giorni di sciopero della fame perché il mondo si accorgesse dell’esistenza dei prigionieri politici palestinesi e della barbarie della detenzione amministrativa (la possibilità di arresto, da parte dello Stato ebraico, senza l’obbligo di un processo o della formulazione di accuse precise).
Eccolo lì Samer, ad accogliervi personalmente sull’uscio della tenda posta sulla terrazza per poter contenere gli amici, i conoscenti o i supporters che affollano la sua casa da quando Israele, cedendo alla pressione della comunità internazionale, ne ha predisposto la scarcerazione. Della sua lunga arringa sei riuscita a captare poco, perdendoti nel rimbalzino di traduzioni (arabo-inglese-italiano) e nel vociferare gioioso dei tanti bambini presenti, forse nipoti, vicini di casa, non si sa. Tutti lo fotografano e anche tu ti unisci al codazzo. Quando rientrerai in Italia e guarderai le foto, ti renderai conto che Samer è in assoluto il soggetto più presente nell’album. Forse perché quello che vuoi riuscire a registrare sono i suoi occhi tristi, quasi spenti, che sembrano incompatibili con il messaggio ottimista e un po’ retorico che sta tentando di mettere insieme per voi. Come si fa, pensi, a passare dodici anni in carcere senza esserne segnato irrimediabilmente, senza portarsi addosso il peso di una giovinezza rubata, mentre tutti i ventenni o trentenni del pianeta possono studiare, innamorarsi, viaggiare e fare progetti futuri? No, una foto non potrà mai testimoniare questo travaglio.
Samer dichiara quanto l’esito vittorioso della Resistenza italiana dia forza e sia d’esempio ai palestinesi. In effetti, il Johnny di Beppe Fenoglio potrebbe avere il suo volto, fiero, malinconico e pronto a tutto. Non Milton di Una questione privata, che l’autore definisce “un brutto”. Samer, invece, è bellissimo, così lontano dagli stereotipi del guerrigliero arabo integralista, con il turbante e il fucile. Indossa dei jeans, una sciarpa colorata e una giacca di pelle. Potrebbe confondersi con la gioventù italiana che, te compresa, lo sta guardando rapita, se non fosse per quello sguardo amaro, che sembra invecchiarlo di cento anni. È circondato dai genitori, figure taciturne e un po’ diffidenti verso quei flash e quella folla, certamente fiaccati dal destino infausto della loro famiglia (oltre a Samer, altri figli sono stai arrestati o uccisi), che è un po’ il destino di tutte le famiglie palestinesi.
Terminato il discorso, diventate voi i soggetti delle foto, assecondando il cantilenante “another picture” dei più piccoli, mossi, pensi, dall’ingenuo desiderio di testimoniare che qualcuno, vincendo il muro dell’indifferenza, è passato di lì, anche se poi tornerà nel proprio Paese, un Paese tutto sommato normale, dove non esistono targhe gialle e targhe verdi e dove l’ingresso nell’età adulta non è sancito dal trauma della galera.