La saggezza del gatto conforta la vecchiaia
febbraio 10, 2015 in Recensioni da Mario Baldoli
Arrivato all’età di 79 anni, Marc Augé riflette sulla vecchiaia nel suo ultimo libro Il tempo senza età (trad. Daniela Damiani, Raffaello Cortina editore).
Tutto nasce quando, per la prima volta, un giovanotto gli offre il posto su un bus.
Un’offesa: significa che è diventato vecchio. Basta questo piccolo gesto per capire che la vecchiaia piomba addosso all’improvviso. Subito si pensa al crollo biologico cui può seguire quello mentale, mentre “il tempo lungo della psicologia soggettiva porta a distinguere corpo e animo” e fa “credere all’immortalità di un principio spirituale”.
How old are you? Quanto vecchio sei? dice spietatamente l’inglese.
E non compensa i fatti un linguaggio divenuto più dolce; non più: sta tirando le cuoia; invece, non dimostra i suoi anni, dimostra tutti i suoi anni, che brutta vecchiaia, è la quarta età. Parole che sono un colpo basso quando negano l’evidenza, cioè che ogni generazione spinge l’altra verso l’uscita così che il pensiero dominante è quello delle stagioni che passano.
Il peso del passato crolla su un corpo ormai indifferente al presente.
La rapidità con cui ci si scopre vecchi dipende anche dalla società: i film mostrano personaggi perlopiù giovani. A mezza età gli attori amano ritoccarsi.
Nella vita del vecchio i malanni fisici rimpolpano quelli morali, spesso presenti da sempre: solitudine, noia, nostalgie, rimpianti, avarizia, narcisismo, cui segue l’indifferenza verso l’oggi e verso il lavoro compiuto nel passato. Il deserto intorno avanza. Il rimprovero si accavalla al rimpianto, emergono nella memoria poche date rimaste significative, va a rischio anche la nostra identità. Uno strano déjà vu ci tormenta.
La società si aspetta dai vecchi una vita attiva e sana, moto ed esercizio fisico, occhio pronto e pancia in dentro. Se occorre, facciano talassoterapia e creme. Qualcuno si fa trapiantare i capelli.
Augé lavora soprattutto su alcune autobiografie definendole non tanto un parlare del proprio passato, che inoltre appare non come una linea continua, ma a sprazzi, quanto un inquadrarsi nella nuova situazione, collocarsi nella nuova identità. Una ricerca di sé, più che un atto di esibizionismo.
Incontrare un amico invecchiato è uno specchio tragico del nostro invecchiamento, il parlare con lui del passato mostra il cambiamento dei ricordi, il nuovo sapore di quanto magari si è odiato. “E’ là che abbiamo provato il meglio” si dicono due amici che Flaubert fa incontrare, e che ricordano un giovanile fallimento.
La letteratura – io aggiungo – calca la dose. L’avvinazzato Anacreonte scrive nelle Odi: Biancheggiano già le mie tempie / e calvo è il capo; / la cara giovinezza non è più / e devastati sono i denti.
Per Balzac: Un vecchio Omero che contiene in sé un’Odissea condannata all’oblio.
Petrarca guarda I vecchi stanchi / ch’anno sé in odio e la soverchia vita.
Fondamentale rimane il saggio La terza età di Simone de Beauvoir, scritto nel 1970.
In 530 pagine descrive centinaia di storie e tipi di vecchiaia, grandi vecchi della letteratura e della politica, nevrosi e psicosi, Freud e Rorschach. E ribadisce due argomenti che si finge di non conoscere: la vecchiaia è di classe, il povero non se la passa come il ricco. E poi: la società considera le persone come merce. Quando non servono più le nasconde nei ricoveri raccontando che i vecchi stanno meglio insieme.
Contro queste ipocrisie, l’evidenza mostra che i vecchi stanno meglio in famiglia e nella casa dove sono vissuti. Cessata la famiglia patriarcale, la soluzione tutta italiana della “badante”, che assiste i vecchi nella loro casa, è la più umana e adatta ad affrontare un problema che è grave in tutto il mondo. In Italia i centenari sono quasi 20 milioni, in provincia di Brescia sono 405. La loro crescita è esponenziale.
Indimenticabile è l’ultimo libro della Recherche di Proust: Il tempo ritrovato, quando il protagonista riconosce a fatica chi frequentava in passato, chi era galante, arrogante, sicuro di sé: il tempo era così visibile a occhio nudo. L’età ha devastato il mondo dell’autore.
Recentemente in Italia, Bobbio, Veronesi e Levi Montalcini hanno scritto sul tema. Molti altri libri abbondano in consigli di solito inutili e scipiti, dato che poi ciascuno invecchia a suo modo, così come a proprio modo si ammala.
Nel De senectute Cicerone (anni 63), afflitto dalla morte della figlia Tullia e da due divorzi in due anni, ricorda all’amico Attico (anni 66) che si può morire anche giovani, e si dilunga sulla splendida vecchiaia di Catone, dedito agli studi, sereno fino all’ultimo. Aggiunge la promessa dell’immortalità per i grandi uomini.
Ma quella di Cicerone è “una fantasia”, nota Augé, pochi mesi dopo sarà ucciso dai sicari di Antonio. Aggiungo che la vecchia lezione stoica (che Cicerone faceva propria) insegna ancora qualcosa, anche se proprio lui dimentica quanti filosofi stoici si sono dati la morte, a cominciare da Zenone, il fondatore della Stoà.
Allora? Dobbiamo adottare “la saggezza del gatto” consiglia Augé: graffiante da giovane, agile ed elegante atleta nella mezza età, poi tranquillo in poltrona a godersi il sole, con lo stesso fascino di quando era fanciullo.