Prosodia notturna
marzo 25, 2015 in Grammatica studentesca della fantasia, Racconti e poesie da Francesca Santuccio
TIPOLOGIA NARRATIVA
Nel mezzo dei tumulti milanesi per la carestia del pane, Renzo scorge, tra la folla, la donna più bella che abbia mai visto. È Angelica, principessa del Catai, scappata dall’Oriente dopo un fulmineo e fallimentare matrimonio con il fante Medoro. Il giovane ne rimane folgorato, ma i doveri verso la promessa sposa Lucia lo tormentano.
«Se mi vedesse Lucia, oh, quella povera, casta donna!». Rimuginavo parecchio sull’incontro avvenuto solo poche ore prima: avevo amato tutto di lei, dalla sua apparizione in fondo alla via, imbacuccata in quel mantello ruvido e sporco (ma quanto le stava bene!), alla maniera in cui, timidamente, si scostava per non urtare i passanti, allo scontro fatale, fino al suo capitombolo così aggraziato! Che estasi averla potuta toccare, aver udito la sua imprecazione, aver incrociato il suo sguardo! Tutto di lei aveva un che di magnetico.
«Vi sentite bene? Siete così pallida!», ma la donna si era rialzata immediatamente, rassettandosi con ansia. «È stato il lungo viaggio, temo». Ah, che voce soave! Che occhi scuri e vivaci! In quel momento le urla della folla erano scomparse, non c’era altro che lei. Una visione decisamente angelica. E proprio così si chiamava: Angelica, avrei appreso poco dopo, prima della sua improvvisa fuga.
«Che fare, santa pazienza, che fare?» mi ritrovai a pensare, passeggiando turbato e assorto per le vie della città. Di lei erano rimaste solo qualche foglia di alloro per terra e una bionda ciocca di capelli, incastrata in maniera fortuita nella mia cintola (il come mi sfuggiva). L’immagine della mia promessa sposa, che mai mi aveva abbandonato prima di allora, sembrava in quell’istante sfocarsi, scomparire di fronte alla prepotente figura di quella pallida donna. Riconoscevo, ahimè, i segni della antica fiamma.
Inutile precisare che mi sarei voluto strappare i capelli ritrovandola fuori città, tutta sola, appoggiata a un albero. Era incappucciata, ma la riconobbi subito, anche se di spalle, perché il cuore sembrava volermi guizzare fuori dal petto. «Ancora voi?». Parve divertita nel vedermi, come se in realtà mi stesse aspettando. Sorridendo, scoprì i denti innaturalmente bianchi e dritti, anche se un po’ appuntiti, notai stranito. «È quasi notte, signora mia, spero avrete un rifugio in cui tornare» balbettai, cercando in tutti i modi di evitare il suo sguardo. Ma ella mi tentava con ogni sotterfugio, come una serpe: una bellissima serpe. «Non sarebbe carino da parte vostra abbandonare una fanciulla indifesa come me…». Maledetta, sapeva che facendo appello al mio orgoglio non avrei saputo dire di no!
Pensate che mi convinse a starle accanto tutta la notte, riempiendomi di moine e dolcezze. Dormimmo (lo giuro, dormimmo!) sino all’alba. Quando mi svegliai, non la vidi accanto a me. Scorsi le solite foglie d’alloro sparse qua e là e null’altro. Abbattuto (e stranamente più affaticato del solito), mi diressi verso casa, pensando a cosa dire alla mia povera Lucia, a come lasciarla senza stracciarle il cuore, lei, pura e candida! Angelica mi aveva totalmente stregato e lasciato senza forze. «Siamo troppo diversi, avrei potuto dirle»; o, ancora, «il problema non siete voi, sono io»; o, anche, «per me restate comunque un’ottima amica».
Reprimendo le lacrime, sconsolato ma anche conscio del mio dovere, raggiunsi in un paio d’ore il giardino di casa. Già stavo preparandomi allo strazio, quando Lucia, scortomi all’ingresso, uscì urlando e singhiozzando, correndomi incontro. «Cielo, che sappia già del misfatto?» mi domandai. Mentre la accoglievo tra le braccia, sentii, al contatto, il collo stranamente dolorante, tanto da farmi sussultare. «Siete pallido, che occhiaie! Dove siete stato? Ero così in pena!».
Potete immaginare la mia sorpresa nell’apprendere la notizia di una donna presente in città sotto falso nome, donna che raggirava gli uomini rapiti dalla sua bellezza per nutrirsi del loro sangue. «Vampiri, li chiamano così in Inghilterra!» urlò, stringendomi forte, ancora sconvolta. «Il suo vero nome è Carmilla, dicono». La madre sbucò dalla cucina, tetra in volto. «È pallida come la morte, e sembra porti con sé dell’alloro». «Vampiri? – mi finsi sorpreso – E succhia sangue?». Risi spavaldo, come mi era naturale, e, stringendo la mia promessa, esclamai «Che sciocche e ridicole superstizioni!».
Ah, Lucia, che santa donna! Tutta contenta per riavermi a casa sano e salvo, neppure si accorse dei due forellini rossi sotto l’orecchio, né del fatto che non portassi con me il borsellino (colmo di denaro) che lei stessa mi aveva donato.