Paul Klee: la fantasia non c’entra niente
marzo 7, 2023 in Arte e mostre, Recensioni da Laura Giuffredi
“Guardatemi, questo sono io…Gli occhi sono molto grandi, sono gli strumenti del pittore. Ma socchiusi: attraverso quelle linee orizzontali, vibranti, probabilmente filtra un po’ di luce…Io sono lì, sul confine tra mondo esterno e mondo interno: osservo l’incontro tra i due…Serve concentrazione, disciplina, volontà. Silenzio. Ed ecco le rughe tra le sopracciglia, la bocca serrata, quasi sotto sforzo. Il resto è linea leggera, fremente, vibratile: vuoto, aria…”.
Così Gregorio Botta introduce il lettore alla comprensione di Paul Klee, immaginando come lo stesso artista si presenterebbe a noi mostrandoci il suo autoritratto del 1919 (Profonda meditazione).
Un saggio affettuoso e appassionato, questo (Gregorio Botta, Paul Klee. Genio e regolatezza, Laterza 2022), con il quale l’autore ci consegna un’indagine accurata attraverso cui anche i non addetti ai lavori possono riuscire ad addentrarsi nello sforzo creativo di un grande innovatore dell’arte pittorica del XX secolo.
Per questo molto aiuta la lettura attenta dei Diari che Klee ci ha lasciato, nei quali il suo processo di formazione viene sviscerato accanitamente dall’interno. Diario come “opera del tempo”, nella quale tutto è narrato con precisione ed attenzione maniacali fino al 1918; da quel momento in poi le riflessioni dell’artista troveranno invece spazio negli appunti e nelle lezioni presso il Bauhaus, dove insegna, adorato dai suoi allievi, dal 1920 e dove annota tutto: materiali, tecnica usata e osservazioni su ogni opera che nel frattempo produce.
“È il metodo Klee, un raro caso di genio che ha saputo vivere una vita regolata, dominata da una lucida, tranquilla razionalità, capace di coltivare gli affetti, alieno dal narcisismo. Solidi rapporti famigliari, coltivate e lunghe amicizie” ( decisiva quella con il pittore Franz Marc).
Nato a Berna nel 1879 da genitori musicisti (Paul stesso diventerà provetto violinista), fin da bambino maneggia in casa colori e materiali (il padre è anche abile bricoleur). E vedrà nella pittura la sola arte in grado di affrancarlo dall’angusta Svizzera, ai suoi occhi di adolescente ribelle poco promettente rispetto al futuro che ha in mente.
Si trasferirà così a Monaco, dove frequenterà Kandinskij e tutta la vorticosa scena culturale della città e dove conoscerà la futura moglie, la pianista Lily Stumpf.
Non mancherà un canonico “grand tour” in Italia: ma di fronte alla sublime perfezione dei grandi maestri rinascimentali, inaspettatamente capisce di preferire il segno incerto, fluido, aperto, vitale; il divenire delle forme, l’imperfezione, la bellezza del non-finito.
Rispetto a quel patrimonio sterminato di bellezza, è difficile riuscire ad inventarsi una strada nuova. Eppure Klee la troverà quasi per caso, all’inizio lavorando su lastre di vetro prima affumicato, su cui tracciare incisioni che appaiono come linee bianche, luminose; poi colorando direttamente le lastre con campiture leggere e solari ( Giardino, 1905).
Dopo la nascita del figlio Felix, è lui che prevalentemente se ne occupa e la cucina di casa diventa il suo studio: anche per questo, forse, lavora soprattutto su piccoli formati.
Padre e figlio saranno sempre insieme fino a quando, nel 1933, l’ascesa di Hitler rende Monaco inospitale per gli ”artisti degenerati” come lui e con la moglie ritorna a Berna (Felix, che si occupa di teatro, ormai sposato rimane in Germania).
Ma intanto in quell’inizio di secolo si definiscono i pilastri dell’arte di Klee: linea, leggera, aperta, vibrante; colore, dominato dal concetto di “tono”, a beneficio della luminosità complessiva dell’opera; metodo: dalle chiazze di colore alla figurazione, che sia parca, ridotta all’essenziale di pochi tratti. Ma giungerà, anche attraverso Kandinskij e Hans Rap, a liberarsi del tutto della necessità figurativa.
La svolta decisiva sarà un viaggio in Tunisia nel 1914. Solo dodici giorni dopo i quali dichiarerà: “Io e il colore siamo tutt’uno” e lo dimostrerà in Cupole rosse e bianche, dalle mille gradazioni di acquerello. Vi è ormai visibile la cifra di Klee: un continuo viaggio di andata e ritorno tra astrazione e figurazione, in uno spazio bidimensionale.
Nel fervore creativo, la Grande Guerra non sembra impressionarlo: tardivamente arruolato a trentasei anni, non vedrà mai il fronte, dipingendo nelle retrovie in preda ad un’imperturbabilità che mai lo abbandona. Sullo scorcio della guerra inaugurerà le sue prime mostre di successo e sposerà il motto “Nell’arte non è tanto essenziale il vedere, quanto il rendere visibile”.
Insegnare al Bauhaus è il naturale approdo e l’assoluto carisma la sua cifra distintiva.
Matura la sua idea di fare artistico : l’artista è un “medium, può anche partire da un dato figurativo, ma poi l’opera prosegue secondo le sue necessità costruttive e secondo le libere associazioni mentali, che provocano l’ulteriore trasformazione del quadro, poiché ogni elemento in più ne richiama un altro. La creazione è dunque una genesi, ancora in corso. In tutto ciò, attenzione!, la fantasia non c’entra niente, anzi, è un pericolo: ciò a cui invece si attinge è la realtà interiore, ampliamento di quella visibile.
Nel suo nuovo studio di Weimar, la creazione è dunque atto “formativo”, non formale ( si veda Abete solitario 1932).
La sperimentazione è comunque continua, già dagli anni Venti, sia per quanto riguarda la tecnica, sia i materiali sia i soggetti ( importante anche l’effetto di un viaggio in Sicilia nel 1924: Mazzarò), passando attraverso puntinismo e decisionismo rivisitati, a creare le campiture ortogonali dei suoi “ quadrati magici”.
Del resto Klee ama dichiarare che “il movimento libero è quasi un dovere morale”, “uno che segue le regole con troppo rigore si perde in un campo sterile”, “ il pittore sa molto, ma lo sa soltanto dopo”.
Ma l’avvento del nazismo e la persecuzione antiebraica ( forse non indiscutibilmente ariana l’origine della madre) fanno precipitare la situazione e il rientro a Berna è, come si diceva, inevitabile. I disegni si trasformano: comunicano dolore, paura, ma anche feroce parodia (Dein Han?”, 1933).
La sclerodermia che lo affligge negli ultimi anni fino alla morte (1940) cambia anche il suo stile, che si fa sempre più semplificato, monumentale, austero, e che non trova più il gradimento del pubblico e della critica.
A questa fase appartiene anche la nutrita seria di Angeli che dipinge o disegna, a sottolineare che “l’uomo è per metà prigioniero e per metà alato, ognuna delle due parti accorgendosi dell’alta prende coscienza della propria tragica incompiutezza”.
Un testamento spirituale che trova forma nell’architettura di Renzo Piano per il Zentrum Paul Klee di Berna: tre curve, una linea, come disegnate da lui.
di Laura Giuffredi