Paterson di Jim Jarmusch
febbraio 28, 2017 in Cinema da Marco Castelli
Otto giorni di vita di un autista di autobus nella cittadina di Paterson, New Jersey: un uomo che si chiama come la sua città (Adam Driver), sua moglie (Golshifteh Farahani) che passa le giornate a dipingere le tende, vende dolci al mercato della domenica e pensa di diventare una chitarrista country ed infine il cane, Marvin, antipatico ma obbediente. Chiaramente anche una scatola di fiammiferi “Ohio Blue Tip” in cucina. Sono questi gli elementi principali della trama di quest’opera, presentata al Festival di Cannes, del regista Jim Jarmusch, peso massimo del cinema indipendente americano e fondatore del cinema minimalista, celebre per le opere nelle quali sviluppa una poetica della relazione tra il posto del soggetto ed il contesto, creando personaggi a disagio nell’accettazione del rapporto con ciò che li circonda.
Se in un primo momento lo spettatore italiano può chiedersi dove sia questa città che sembra essere tanto importante per il film da identificarsi nominalmente con lo stesso protagonista, ci si accorge presto che tutto ciò è solo un pretesto: Paterson è una città di provincia qualsiasi in qualsiasi parte del mondo “occidentale” e Paterson è un uomo qualsiasi, che si trova nel momento della vita in cui si è raggiunta una qualche forma di stabilità e ci si rende conto che ormai quella è la propria vita.
La tranquillità della provincia è data dalle immagini statiche che si ripetono ogni mattina al risveglio della coppia. Il protagonista si sveglia sempre tra le 6.10 e le 6.30. Comincia la giornata ascoltando i colleghi e poi le conversazioni dei passeggeri. Le riprese dall’autobus segnalano il passaggio per le strade di Paterson, che sfumano le giornate tra loro, interrotte solo da qualche incontro o incidente o da qualche verso di poesia (si attribuiscono a Paterson le poesie di Ron Padgett). La regia semplice ed una buona fotografia accompagnano il tutto, senza sfumature, senza colori o accelerazioni fuori posto. Si accumulano così tutte le piccole cose quotidiane, le “nugae” che non sembrano essere niente, ma potrebbero diventare il tutto di un momento, l’essenziale che è invisibile agli occhi.
“Si effonde puro il canto/Quando è raccolto lamento,/Quando lo raccoglie il vento” scriveva Clemente Rebora riferendosi all’attività poetica, e probabilmente a questa affermazione potrebbero aderire anche gli sceneggiatori del film. La poesia per Paterson è un atto di creazione solipsistico, senza fine, che si vuole rimanga privato (non alla Neruda): non hanno senso le decorazioni in questa tela di Penelope che si tesse giorno dopo giorno ritornando sulle stesse strade, se non il fatto di essere anch’esse parte di quella trama. La poesia si propone, montalianamente, come “squarcio” possibile, come alternativa, ma sembra che ai protagonisti di questo mondo in fondo non interessi cercare un “altrove” ed il verso costituisce solo una definizione ontologica delle cose, un modo di mettere tutto al suo posto, di riporre anche la scatola di fiammiferi sul ripiano corretto dopo aver acceso la sigaretta. Poche sono le scene che rompono la quotidianità delle giustapposizioni (un autobus che si rompe, un’interruzione durante il bicchiere serale al bar), e restano all’esterno del mondo poetico dell’autore, come innecessarie in quanto stonate e disturbanti.
Si tratta di un film dove i riferimenti all’Italia sono numerosi, un’Italia patria di anarchici (Gaetano Bresci, vissuto a Paterson) e soprattutto poeti (dai versi di Petrarca all’immagine di Dante nel lunchbox). Manca però il poeta italiano che seppe definire l’aurea mediocritas che permette di capire e sorridere alla quotidianità umana, fondamento per cercare il “grado zero della poesia” minimalista di questo film. Ma forse tutti quei riferimenti erano solo utili per riempire la “wall of fame” di Paterson del bar di quartiere, piccolo teatro di vita per amanti non corrisposti.
Anche gli incontri con alcuni altri poeti rimangono eccessivamente surreali, quasi inopportuni nella loro evocazione di un realismo magico, stonati in un film così aderente alla quotidianità per la loro volontà di stupire, di presentare una possibilità che nel resto della pellicola è sepolta dalla routine. Nonostante l’invito che sembrano contenere all’ascolto, all’attenzione agli altri, appaiono quasi falsi nella loro eccentricità. Questo è soprattutto perché, in fondo, il mondo di Paterson è un mondo triste, d’incomunicabilità, che disegna un grande vuoto relazionale, di vincoli che la poesia non riesce davvero a sostituire. La moglie cerca una sua realizzazione personale tra i vari sogni di un giorno. Il rapper continuerà a cercare rime nella lavanderia a gettoni ed i passeggeri inventeranno altri racconti. Sembra un mondo nel quale neanche la poesia può dare più che una semplice speranza di un’alcova, nella quale rifugiarsi per stare un po’ al caldo la sera nel proprio studiolo o la mattina, prima di cominciare il lavoro. E, certo, non è comunque poco: would you rather be a fish?