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Fischia Brescia e infuria la bufera

aprile 27, 2013 in Crisi da Sonia Trovato

DSCN3270Non ho voluto assoggettarmi a facili stumentalizzazioni; non voglio che la campagna elettorale ruoti tutta intorno alla questione del Bigio ha dichiarato il sindaco bresciano Adriano Paroli, all’indomani della decisione di rinviare la collocazione della statua di Arturo Dazzi al periodo post elettorale. Decisione che, ahimè, non gli ha risparmiato un coro di fischi durante il saluto istituzionale a una Piazza Loggia affollata per festeggiare il 25 aprile.

Eppure le forze dell’ordine ci hanno provato a impedire che il corteo antifascista, partito dal Carmine al termine della pastasciuttata, raggiungesse in tempo il palco, allestendo un improvvisato cordone di poliziotti in tenuta antisommossa. Leggi il resto di questa voce →

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Xilografia mitologica del mio Paese

aprile 26, 2013 in Satira da Claudio Ianni Lucio

Eracle eracleo, anche se non veneziano, trovavàsi ormai da lunghi anni all’ozio in Argo. In quel luogo, la genitura bastarda di Zeus (carnacialesco Anfitrione dai gameti infallibili) ed Alcmena (credulona, anche se in buona fede) che fin dalla culla vantava esperienza nella lotta alle bestie, doveva trovare e, casomai riuscendoci, uccidere la prole, dal sembiante leonino e nemeo, d’incerte origini genitoriali e, perciò, divin-biologiche, ch’era forse di Zeus e Selene, ma forse di Otro ed Echidna, o fors’ancora di Tifone ed Echidna (che comunque v’è due volte su tre, la figlia di Forco e Ceto o di Crisaore e Calliore, la donna con le gambe serpentine, Echidna insomma, candidandosi così come una delle probabili componenti della reale coppia di genitori). Su tali parentele c’è poi da dire che Otro, fratello dell’Idra di Lerna, di Cerbero e della Chimera, venne concepito da Tifone, per mezzo di un procedimento pressoché imponderabile dal punto di vista sessuale, unitosi con Echidna (ai due andò poi lo storico e imbattuto primato di “coppia generatrice di più teste che figli”. Il titolo in questione, insieme alle ovvie difficoltà economiche e relazionali da esso derivate, spinse Tifone, già soverchiato dal trauma infantile della scoperta d’esser nato da una pugnetta di Crono, ad abbandonare il proprio tetto coniugale e rifugiarsi nell’Etna con la scusa, di gran moda al tempo, “delle fatiche mi attendono, debbo scendere in campo per il bene di tutti – anche per la famiglia -, perché la classe dirigente è ormai vecchia decrepita e va sostituita”). Ciò renderebbe, se ne venisse accertata l’origine biologica come figlio di Otro ed Echidna, il Leone frutto d’un incestuoso fornicamento, il che ne spiegherebbe la condotta vandala e antisociale, altrimenti da attribuire a una cattiva educazione o, più probabilmente, a una radicata avidità. Leggi il resto di questa voce →

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La cura di Enone: la vita è amore

aprile 25, 2013 in Nuovi cittadini da Beatrice Orini

roblin 6(2)Nome: Enone

Cognome: R. V.

Età: 23 anni

Professione: operatore socio sanitario

Paese d’origine: Cameroun

In Italia dal: 2009

Stato civile: libero

Sogno: La pace nel mondo e il rispetto dell’uomo

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Piccole pompe funebri. Morte di una Travestita

aprile 25, 2013 in Recensioni da Piera Maculotti

Il noir bresciano dedicato al Carmine di Mymosa Moon. Editor curatore Sergio Facchetti

Piccole pompe funebriLa gente perbene e quella permale. La città sana e pulita di là; di qua il malfamato quartiere, tra vicoli stretti e osterie, ladri, puttane e trans tutte nostrane.

Distinzioni nette, valide forse nel tempo che fu… Oggi invece è tutto liquido: un calderone confuso si lamenta Mymosa Moon, che sulla trasgressione – dice – è decorosamente campata per lunghi anni.

Ricca, elegante, d’età indefinita, delle storiche travestite del centro città è rimasta solo lei. Sola e triste: per questo scrive… Brandelli di storie; memorie vive, vere chissà … Perché la verità è come l’identità: una, nessuna e i centomila flash del suo variopinto racconto lo attestano. Leggi il resto di questa voce →

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Egidia Beretta Arrigoni racconta il suo Vik

aprile 12, 2013 in Recensioni da Sonia Trovato

Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi Bandierina-Inglese

Dovessi un giorno morire, tra cent’anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto quello che diceva Nelson Mandela: “Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni: un vincitore”. 

il viaggio di vittorioIo non ho le zanne perché non sono un lupo, scriveva Vittorio Arrigoni in un tema di seconda elementare. E guardando alla sua straordinaria biografia, raccontata dalla madre Egidia Beretta nel volume Il viaggio di Vittorio (Dalai Editore, 2012, pp. 185), si comprende come in queste parole ci fosse già l’essenza dell’adulto che consacrò la propria vita a battersi contro i “lupi” e in difesa degli oppressi. Leggi il resto di questa voce →

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Brescia, the capital town of dioxin

aprile 10, 2013 in Approfondimenti da Anna Zorzi

Written by Mario Baldoli, translated by Anna Zorzi  Bandierina-Italiana

A national congress on the reclamation of polluted areas, promoted by Fondazione Micheletti  and with the patronage of the Town Council, will take place  in Brescia at the auditorium Santa Giulia, via Piamarta next 14th and 15th October. Topic of discussion will be the  pollution in Brescia and surroundings, such as : the site of the factory Caffaro in town, the iron and steel industry affecting  the River Mella, the waste incinerator (the biggest in Europe) of the local  ASM  (the Municipal Services Company), cement works,  the future thermoelectric and atomic power stations  in the area of Ghedi’s  military airport.

In a public meeting organized by G9 last year, Brescia was said to be the third most polluted town in Europe (according to EU data). Today Brescia is confirmed to be the most polluted town in Italy.

The factory Caffaro, located  near via Milano in Brescia and  not far from the historical  city centre, is the most responsible for the pollution. (see http://www.ambientebrescia.it/Caffaro.html). Leggi il resto di questa voce →

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Patrick Hamilton: Rope e Gaslight

aprile 9, 2013 in Libri perduti o da tradurre da Anna Zorzi

rope

Oggi proponiamo un autore inglese, Patrick Hamilton (1904-1962), di cui in Italia è stato tradotto un solo libro. Romanziere, drammaturgo, sceneggiatore, Hamilton ha ispirato i film di Hitchcock Nodo alla gola (Rope) e di Cukor Angoscia (Gaslight). L’angoscia che Hamilton esprime in ambienti sempre lividi e bui, con lievi battute, con lo scontro nella famiglia e tra amici, ne fanno un precursore di Harold Pinter. Tra i tanti scrittori che l’hanno amato, basti il giudizio di Doris Lessing Hamilton è stato uno scrittore meraviglioso, gravemente trascurato.

Rope, primo successo teatrale di Patrick Hamilton, scritto nel ’29 e adattato in versione cinematografica da Alfred Hitchcock 20 anni dopo, è la storia di Brandon e Granillo, due giovani, ricchi, raffinati studenti di Oxford, tipici rappresentanti dell’upper-middle class inglese degli anni ’20. Ispirati dal mito del Superuomo, pianificano e portano a termine l’assassinio di un loro compagno di studi, Ronald Kentley, figlio di Sir Johnstone Kentley. Nascondono poi il corpo in una cassapanca che piazzano al centro del salotto del loro elegante appartamento nel quartiere londinese di Mayfair. Leggi il resto di questa voce →

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Rinascimento e Antirinascimento. Firenze nella cultura russa fra Otto e Novecento di Lucia Tonini

aprile 9, 2013 in Recensioni da Laura Giuffredi

Il volume a cura di Lucia Tonini (Firenze, Leo Olschki, 2012) ha avuto la prima origine nel convegno organizzato dal gabinetto Vieusseux nel dic. 2003, in occasione dei trecento anni dalla fondazione di San Pietroburgo. I diciannove saggi che lo compongono, di studiosi italiani e russi, illustrano con varietà di temi e da diverse angolazioni, il dialettico rapporto tra il Rinascimento italiano, fiorentino in particolare, e un “antirinascimento” russo che, nell’approfondire la conoscenza del primo, lo guarda con diffidenza, se non lo demonizza addirittura.

Per inquadrare la questione, basterebbe ricordare la reazione di Lev Tolstoj davanti alla Madonna Sistina di Raffaello, a Dresda,  nel 1902 (ne parla S.N. Bulgakov (Due incontri (dal libro di memorie), 1898-1924): “…soffocava dalla rabbia, bestemmiando come un ossesso… E che sarà mai? Una che ha fatto un figlio… E allora? Che cosa c’è di speciale?…” Leggi il resto di questa voce →

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da admin

Cioè, cioè.. fate sul serio?! (3)

marzo 26, 2013 in Satira da admin

È vero che se pensi a lui mentre in una notte di luna piena immergi tre rose in acqua a testa in giù legate con un filo di lana rossa, e poi le seppellisci e le annaffi, lui si innamorerà di te entro trenta giorni? (Alpha)

Cara Alpha, ovviamente la risposta è no.

Tu pecchi d’ingenuità, cosa che molto probabilmente dipende dalla mancanza di esperienza. Non è possibile influenzare i sentimenti che qualcuno prova per te con rituali simili. Devi capire che nella vita le cose importanti si ottengono con ragione, impegno e applicazione; perciò quello di cui hai bisogno è un rituale eseguito con scrupolosità e non così alla carlona, senza nemmeno uno straccio di formula magica, come stessi cucinando un piatto di maccheroni al sugo (sugo già pronto).

Esistono molti tipi di rituali utili a favorire l’innamoramento tramandati dai grimori e dalla tradizione; te ne consiglierò uno in particolare. Prima, però, apro una parentesi etica: non confidare a nessuno ciò che farai, altrimenti, oltre a minare la buona riuscita dell’incantesimo, ti sentirai probabilmente dire cose del tipo: “Ma non è giusto, non si può costringere qualcuno ad amarci!”, invece si può, quindi si fottano tutti; in amore e ai buffet tutto è lecito.

Per portare a compimento quest’efficacissima procedura magica dovrai, per prima cosa, preparare e nascondere un sacchetto di seta verde contenente: una o più fotografie del tuo amato (meglio, anche se non indispensabile, se nudo, ma per questo dovrai ingegnarti da sola) e ogni oggetto reperibile che abbia avuto un contatto con la pelle di questa persona (maggiori saranno i feticci impregnati della sua vitalità a tua disposizione, maggiore sarà la forza fluidica che riuscirai a impiegare). Dovrai poi purificare una stanza, bruciandovi dell’incenso, nella quale appartarti un venerdì notte (è consigliabile scegliere un’ora di Venere, quindi la prima o l’ottava, delle dodici ore dal tramonto all’alba).

Prepara un altare, anche di semplice foggia, purché sia nuovo (cioè mai utilizzato per scopi profani, tipo la briscola) e realizzato a incastro, dopodiché coprine la superficie con una tovaglia di lino. Sull’altare sparpaglia il contenuto del sacchetto tra due candele verdi e, all’estrema sinistra del tavolo, un bruciaprofumi di rame (unico metallo consentito) nel quale incedierai una mistura di: incenso, ambra, benzoino, polvere di legno di sandalo (non dei sandali) e foglie di verbena secche. Per un maggior quantitativo di fluido venereo, procurati un mazzo di rose, viole, gelsomini, giacinti o lillà.

Togliti tutti i vestiti e indossa una veste di seta verde (può andar bene anche un accappatoio bianco, però dovrai necessariamente portare una sciarpa verde a mo’ di stola; anche le arti magiche, col passare dei secoli, si son fatte meno intransigenti).

Terminate le prime preparazioni, mettiti davanti all’altare e concentrati intensamente sul tuo amato per circa sette minuti (senza toccarti, però), poi, sempre con grande concentrazione, dovrai fissare con dolce fermezza la fotografia, protendendo le mani aperte verso l’altare e recitando, per tre volte con vigore crescente, questa formula: “- Nome dell’amato- vieni al mio richiamo, guidato da Anael, che invoco. Di già, con la mia volontà, il tuo doppio s’impregna degli effluvi del mio desiderio. Che il tuo spirito sia colpito, che la tua anima si unisca alla mia e che il tuo corpo si apra al piacere. Che i geni propizi, animati dal mio verbo, mi aiutino a incatenarti e a dirigerti a me. Sia fatta la mia volontà e compiuta l’opera. Amen!”.

Terminato quest’orgasmo di pura magia rossa, non ti resta che parlare all’amato come se fosse lì in carne e ossa, finché non gli avrai detto tutto ciò che vorrai comunicargli (so che non c’è questo rischio, ma ricorda: niente frasi troppo complesse). Ripetendo tutto l’ambaradan per una settimana, lo scopo dovrebbe essere raggiunto.

Nel caso in cui il rituale non avesse il successo sperato, ti resterà solo una cosa sensata da fare: rivolgerti a uno specialista.

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Gli specialisti, in questo caso, non sono fattucchiere o ciarlatani da strapazzo, bensì i settantadue demoni infernali elencati nella Clavicula Salomonis. Professionisti seri e competenti come loro rappresentano l’eccellenza, non puoi trovare aiuto migliore (d’altronde se sono sulla cresta dell’onda da millenni un motivo ci sarà). Naturalmente, proprio come quando ti si rompe lo sciacquone e chiami l’idraulico, c’è un prezzo da pagare (e non sperare di cavartela con un po’ di latte e biscotti come fai con Babbo Natale) che concorderai con l’intervenuto. Nella lista dei demoni numerosi sono quelli adeguati alla causa: Amon, Eligos, Zepar, Sallos, Gaap, Furfur e Raum; io ti consiglio di rivolgerti a Sallos, perché si occupa esclusivamente di “causare” amore tra persone di sesso opposto, una specie di versione sobria di Maria de Filippi.

Ti do alcuni consigli: sii rispettosa e umile con il demone che evocherai (questi tizi sono antichi e, se non bastasse, nobili: marchesi, conti, principi e duchi, per intenderci), stai bene attenta a ciò che chiedi e a come lo chiedi, evita assolutamente di promettere compensi al di là della tua portata (pare non accettino alcuna forma di dilazione di pagamento), resta sempre molto concentrata o potresti non accorgerti della sua comparsa (non sempre appaiono all’evocatore con le sembianze tramandate dalla letteratura) e, una volta scelto il demone, ti conviene tenerti quello, anche perché cambiare collaboratore in corso d’opera, oltre a essere un comportamento maleducato, è un evidente segno di disprezzo.

La tradizione vuole che il mago si circondi di un cerchio magico per proteggersi dal demone evocato, ma credo che dovresti farne a meno (considerando che sarà tuo ospite, mi sembrerebbe di cattivo gusto. Quando arriva il tecnico della tv non lo accogli puntandogli contro una pistola, o no?); invece alcuni consigliano di evocare prima Satana e chiedergli poi di far da tramite con il demonio desiderato, evitalo (figuriamoci se la burocrazia ha tanto potere da sottomettere anche gli dèi, non voglio proprio crederci).

Passiamo al rituale: disegna su un foglio il sigillo del demone che intendi richiamare.

Questo è il sigillo di Sallos:

Chiudi gli occhi e visualizza il sigillo nella tua mente (puoi ricontrollarlo, non è un esame). Mentre lo visualizzerai, recita o canta ripetutamente il nome del demone scelto. Se vuoi fare qualcosa di classe e fare una bella figura, recita quest’invocazione (qui adattata per Sallos): “Satana, Mio Signore, concedimi, Ti prego, il potere di generare nella mia mente e di eseguire ciò che desidero, il cui fine conseguirò con il tuo aiuto, oh potente Satana, l’unico vero Dio che vive e regna sempre e per sempre. T’imploro di ispirare Sallos affinché si manifesti davanti a me e che possa darmi risposte veritiere e accurate, in modo che io possa ottenere il mio fine, premesso che sia appropriato alle sue funzioni. Chiedo questo umilmente e rispettosamente nel Tuo Nome, Satana Mio Signore, che tu possa giudicarmi degna, oh Padre”.

Mettici enfasi, mi raccomando.

Claudio

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da admin

Bartleby, unchained

marzo 26, 2013 in Approfondimenti da admin

Le ultime notizie pervenuteci su Bartleby, lo scrivano, lo danno morto solitario in carcere nel 1853. Da allora non si fa che parlare di lui e molti hanno voluto cercare di capire le sue ragioni. Da qualche anno però, lo spettro di Bartleby si aggira per Bologna. In effetti chiamarlo spettro non è propriamente corretto, perché più volte si è manifestato materialmente nelle strade e nelle aule universitarie; addirittura per parecchi mesi ha avuto anche un domicilio. Allora qualcuno ha cominciato a dire che Bartleby è ancora vivo, perché è vivo chi ha ancora qualcosa da dire. Forse il punto non è cosa il Bartleby di Melville volesse dire all’epoca (rifiutando il lavoro fino alla morte, pur di fronte alla resa del suo capo), ma che cosa possiamo fargli dire oggi.

E’ possibile definirlo un personaggio dell’esodo: non si scontra, non confligge con il Faraone (oggi diremmo il barone) ma sceglie di andarsene, perché non ha niente da chiedere e perché non ha alcun interesse a riconoscere il suo discorso e a minarne l’autorità; sarebbe l’autorità su un discorso altrui, al quale non appartiene più. Fare un paragone contemporaneo con l’episodio dell’esodo, però, non garantisce l’assenza di una violenza subìta, perché il Faraone, come è noto, fa inseguire il popolo ebraico dall’esercito. In più, il viaggio non ha come meta la terra promessa, un luogo salvifico esterno nel quale poter avere un nuovo principio. La meta di un paragone del genere è più simile alla riserva indiana, ossia un luogo di riparo imposto dal nemico esterno: la riserva indiana è confinata e accerchiata. In un luogo di questo tipo, in cui è più facile entrare che uscirne, è più probabile che sia il discorso del Faraone (del potere) a condizionare di nuovo la vita di chi lo abita (non a caso gli indiani aprono i Casinò), perché un confine ben definito può essere riconosciuto come l’antagonismo necessario all’esistenza dell’autorità del Faraone stesso. Sarebbe dunque il linguaggio del potere a contaminare lo scrivano, mentre sappiamo bene che non è così. Nell’esodo contemporaneo infatti non c’è un altro posto dove andare, non c’è un “fuori” salvifico, che sia la Terra Promessa o la riserva indiana. Come Django, nero e senza catene, Bartleby decide di restare, pronto a parlare con la propria voce. I pensieri di Django non sono nemmeno sfiorati da un salvifico ritorno in Africa, perché la moglie che vorrebbe liberare è nello stesso mondo schiavista in cui si trova lui, e dunque è lì che deve giocare la propria partita.

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C’è una canzone dei Rancid, un gruppo punk famoso negli anni 90, che dice:
Some men are in prison even though they walk the streets at night
Other men who got the lockdown are free as a bird in flight
How about the hour in the system that ended
In a one-way line our measures could not stand in.”

I primi due versi dipingono un personaggio contraddittorio ed esistenzialista, come Bartleby o Django: due solitari che “preferiscono di no”. Ma la morte di Bartleby e la liberazione (come singoli) di Django e sua moglie, non hanno la funzione di atti di rivolta individuali, bensì di atti narrativi che possono diventare di uso collettivo se riempiti di senso. Con Deleuze, Bartleby (così anche Django), con il suo solo “preferirei di no”, costringe chi lo circonda, come l’avvocato di Wall Street, a rimodulare il proprio linguaggio (il proprio discorso) in base al suo. Ma il “preferirei di no” sfugge continuamente alla cattura del discorso del potere, e infatti l’avvocato avverte uno spaesamento, quasi che il suobartleby faccione vocabolario non sia in grado di comprendere, di spiegare, di misurare la portata delle parole dello scrivano. Ed ecco che gli altri due versi ci dicono: che cosa ne facciamo dell’unità di misura (l’ora) di un sistema che non sta in piedi? In una linea unidirezionale siamo semplicemente “immisurabili”. Non è questione di trovare un’altra misura: è proprio il concetto di misura a non potersi sovrapporre al rifiuto di Bartleby, lo scrivano. Per tornare sulla terra, un esempio è il sistema dei crediti universitari, cioè il tentativo di misurare la produzione del sapere. Ma è possibile misurare qualcosa la cui produzione è comune e in continuo divenire? Questo è un esempio dell’impossibilità di ricondurre Bartleby, il moderno Bartleby, all’interno del discorso egemone: il “preferirei di no” sfugge continuamente alla cattura. Ogni tanto accade che chi circonda questo “demente” (come l’ha definito un giornalista un po’ superficiale) si rifiuti aprioristicamente di provare a comprenderlo, e allora regolari arrivano gli sgomberi, le manganellate, i sigilli. I mattoni che le forze dell’ordine hanno utilizzato per murare l’ingresso dell’ultimo domicilio di Bartleby (uno spazio autogestito in cui si sono tenuti seminari, incontri, assemblee, presentazioni di libri, colloqui con attori, performance di artisti, concerti), in via San Petronio Vecchio 30 a Bologna, sembrano proprio una surreale citazione della Wall Street (la via del muro) dello scrivano di Melville. Ma la prerogativa di Bartleby di essere sfuggente, contagioso, multiforme, aperto alla contaminazione non può essere chiusa in quattro mura, che siano lo studio di un avvocato a Wall Street o un centro sociale. Perché Bartleby è, come Django, unchained.

bartleby corteoBartleby, la città dei saperi, gli spazi del dissenso

bartleby muroTra Gennaio e Febbraio 2013 Bartleby, collettivo e spazio sociale bolognese, ha avuto la ribalta su tutti i media a partire dallo sgombero che ha subito attraverso l’uso della polizia da parte dell’Università di Bologna. Bartleby, il cui nome è dovuto al protagonista del romanzo di Melville che “preferisce di no” e del quale il collettivo vorrebbe riscrivere il finale, è nato all’interno della grande mobilitazione studentesca contro la Riforma Gelmini dell’università nel 2008 (“tra le pieghe dell’Onda”, si diceva allora).

Da quel momento ha prodotto corsi di autoformazione (cui la stessa Università riconosce valore e crediti), seminari tematici con docenti di altre università (anche estere), incontri con scrittori (da Erri de Luca a Carlo Lucarelli), attori, artisti e fumettisti, concerti, una biblioteca autogestita contenente il Fondo Roversi (appartenuto al poeta bolognese recentemente scomparso) oltre ad assemblee pubbliche, luogo di organizzazione di movimenti contro la crisi e l’austerity, la dequalificazione dell’università, la precarietà come condizione disagiata di vita.

Per realizzare tali progetti il collettivo occupò nella primavera del 2009 uno stabile dell’università inutilizzato da più di dieci anni, e dopo due sgomberi raggiunse un accordo con l’allora nuovo Rettore Ivano Dionigi per l’assegnazione di uno spazio, durata fino allo scorso Gennaio, nonostante la convenzione fosse scaduta nel Settembre 2011. Da quel momento, infatti, il dialogo con l’Università si è interrotto: il rettore ha dichiarato che non esistevano altri spazi disponibili e che nella sede attuale dovevano essere fatti non meglio precisati lavori. Ci ha pensato così il Comune, nella persona dell’Assessore alla Cultura Alberto Ronchi, a proporre un nuovo spazio al collettivo: un seminterrato in centro che Bartleby ha accettato nell’estate del 2012. Ma subito dopo, anche a causa di polemiche più ampie sulla cultura in città (con il ritorno del protagonismo sui giornali dei “comitati anti-degrado” di cofferatiana memoria), il PD bolognese costringe l’assessore alla marcia indietro e ricominciano così le minacce di sgombero da parte dell’Università.

Pochi giorni prima di Natale, sotto la pressione dei vertici dell’Ateneo (che a Bologna rappresenta la risorsa e l’indotto principale, se non l’istituzione più potente), il Comune, questa volta nella persona dell’Assessore ai Servizi Sociali Amelia Frascaroli, si rimette in contatto con Bartleby, invitando il collettivo a visionare una nuova proposta “prendere o lasciare” il 10 Gennaio, con tre giorni di tempo per lasciare i locali occupati dell’Università. Il nuovo spazio è un capannone industriale a più di 5 kilometri dal centro città e dall’Università, circondato da altri capannoni e campi, senza collegamenti idonei, oltre la Tangenziale, e difficilmente raggiungibile senza pericolo con mezzi propri, completamente inadatto alle attività che Bartleby ha svolto in 4 anni. Una proposta che sembra fatta apposta per ottenere un rifiuto e legittimare lo sgombero, che infatti avviene pochi giorni dopo, il 23 Gennaio.

Da quel giorno la città (e non solo) si spacca, di fronte alla grande solidarietà ottenuta da Bartleby: un corteo invade immediatamente il Rettorato senza trovare il rettore Dionigi, bartleby book blocviene caricato dalla polizia quando cerca di avvicinarsi alla sede appena sgomberata (il cui ingresso è stato immediatamente murato dalla polizia, con all’interno tutto il materiale del collettivo, comprese le riviste storiche del Fondo Roversi), infine occupa la Facoltà di Lettere e Filosofia per un’assemblea pubblica partecipata da centinaia di persone che rilancia la mobilitazione. Nel frattempo, sui giornali, SEL (per quanto riguarda la politica) e i Docenti Preoccupati (per quanto riguarda l’Università) prendono le difese di Bartleby, che il giorno successivo occupa un’aula della Facoltà di Lettere in via Zamboni 38. Sabato 26 Gennaio un corteo di mille persone (compresi SEL e i docenti, oltre agli studenti e a tutte quelle figure che hanno attraversato Bartleby) occupa l’ex convento di Santa Marta in pieno centro: un grande complesso inutilizzato da 7 anni, con un progetto finanziato dal Comune per la ristrutturazione che non è mai partito. Tre giorni dopo arriva un nuovo sgombero.

bartleby assembleaQuesta breve ma intensa storia ha sollevato (e riaperto) a Bologna vari temi: il rapporto centro/periferia; la questione della produzione culturale; i saperi critici all’interno dell’università in crisi; l’utilizzo (o il riuso) dei luoghi pubblici abbandonati; la pratica del conflitto come legittimazione. Su questi temi (alcuni dei quali, non a caso, affrontati anche a livello nazionale riferendosi a Bartleby) si è dibattuto per giorni sui giornali mainstream, spesso strumentalmente, vista la vicinanza delle elezioni.

  1. In primo luogo Bartleby è stato accusato di essere un collettivo di “fighetti” o di “birraioli” (cito) che non hanno il coraggio di assumersi la responsabilità di riqualificare la desolata periferia bolognese; come se una sola realtà autorganizzata confinata in mezzo ai capannoni potesse cambiare la vivibilità di una zona industriale, senza un piano chiaro delle istituzioni, senza trasporti adeguati, slegando tra l’altro Bartleby dalla composizione sociale che gli ha permesso di esistere. Del resto Amelia Frascaroli ha spesso fatto riferimento alle grandi città europee, come se Bologna fosse Berlino, e non una città il cui centro è composto per un quarto dall’Università e la cui popolazione è composta per un sesto da studenti, molti dei quali fuori sede.
  2. A Bartleby, fino a qualche settimana fa, è stato sempre riconosciuto anche dalle istituzioni il valore della produzione culturale; un riconoscimento, però, volto a svuotare quelle iniziative del contenuto politico spesso conflittuale proprio verso le istituzioni cittadine e d’altro lato verso i vertici dell’università (è il caso del movimento contro la riforma Gelmini, i tagli alle borse di studio, l’aumento delle tasse, i tirocini non pagati ecc.). Nell’ultimo mese la guerra contro Bartleby è stata totale, e il Fondo Roversi può essere definito sui giornali cosa di poco conto, le iniziative paragonate a quelle di un’osteria, l’autofinanziamento letto solo come una pratica d’illegalità nella vendita di bevande. Ma la ricchezza della città di Bologna (o vorremmo dire il motivo per cui gli studenti ci vanno a vivere) non è affatto l’Università d’eccellenza (che la qualità stia solo nel bilancio è prerogativa del governo Monti), bensì tutto ciò che vi ruota attorno, le esperienze che permettono agli studenti di formarsi meglio e oltre l’accademia, un circuito culturale metropolitano cui spesso viene fatta la guerra perché indipendente o non corrispondente alle logiche dell’impresa: non a caso Bartleby è stato sgomberato ma anche altri spazi sociali, come Atlantide e XM24, sono continuamente sotto attacco. L’Università, dal canto suo, ha preferito spendere 50.000 euro di affitto l’anno per un capannone vuoto, senza sapere a quali progetti avrebbe potuto essere utile, solo per garantirsi il “rifiuto degli antagonisti” e legittimare uno sgombero.

  3. Anche all’interno dell’Università, l’organizzazione di corsi di autoformazione presuppone l’utilizzo di saperi critici in maniera conflittuale (oltre a mettere in discussione la verticalità delle lezioni accademiche), perché sono saperi di parte, perché guarda caso sono argomenti solo sfiorati nei corsi ufficiali che comunque risentono di un’impostazione rigida e di un’interpretazione che spesso lascia a desiderare: anche questo dà fastidio a chi ha la certezza di poter insegnare per anni le stesse cose.

  4. Nel bel mezzo della crisi, che non accenna a essere superata, gli spazi abbandonati di proprietà delle amministrazioni locali o addirittura del demanio sono un argomento che dà particolarmente fastidio a chi governa, tendenzialmente impegnato a tenere questo patrimonio pubblico inutilizzato in attesa di tempi migliori, o, se va peggio, a svendere tale patrimonio a speculatori edilizi per raccogliere le ultime briciole. Almeno nel primo caso (allo Stato come garante dei beni comuni ormai ci credono in pochi, vista la non applicazione di fatto del referendum sull’acqua), una giunta “di sinistra” dovrebbe quantomeno riaprire la questione del riuso e dell’autogestione di tali spazi da parte dei cittadini: e questo sarebbe il minimo, perché poi ci sarebbero quelle realtà già autorganizzate da anni sempre in attesa di una legittimazione che non è mai arrivata.

  5. La dicotomia legittimità/legalità ha riportato Bologna all’era Cofferati, che possiamo riassumere in: “qui siete solo ospiti, andatevene il prima possibile senza sporcare”. La svolta legalitaria del PD non ha aiutato il dialogo con i movimenti, che si sono sempre posti in maniera ambigua ma comunque disponibile: come abbiamo detto Bartleby, ad esempio, è nato da un’occupazione, ma è stata la stessa Università a proporre poi un’assegnazione regolare al collettivo, a dimostrare che il conflitto può essere fonte di legalità. D’altro canto la forma (legalità) non può nemmeno essere la chiave di lettura di qualsiasi esperienza partecipata e commentata positivamente da migliaia di persone (legittimità), poiché la “repressione” di quell’esperienza, che potremmo dire essere l’uso della forza da parte della forma sulla sostanza, non ne placa il bisogno, il desiderio, la necessità.

FOTO: Bartleby lo scrivano; La prima sede di Bartleby nel 2009 in via Capo Di Lucca (Antonio Delvecchio); Un incontro casuale con Bartleby (Antonio Delvecchio); Il corteo del 26 gennaio che terminò con l’occupazione dell’ex convento di Santa Marta (Michele Lapini); L’ingresso murato di Bartleby in via San Petronio Vecchio il 23 gennaio; Un’immagine dell’aula Roveri occupata nella Facoltà di Lettere (Diana Sprega); Assemblea per Bartleby nell’aula III della Facoltà di Lettere (Ludovica Guzzi)

http://bartleby.info

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