Nei giardini di Shiraz
febbraio 6, 2023 in Letteratura, Persia da Roberta Basche
Gli iraniani sono protagonisti di una storia millenaria che richiede di venir interpretata con la pazienza dei tempi lunghi. Ormai la storia volta pagina in Iran spezzando l’anomalo binomio tra Islam e rivoluzione. Quarant’anni dopo l’imposizione dell’obbligo di indossare il hijab è la rivolta delle donne ad annunciare un futuro migliore. Gli articoli della sezione “Persia” cercano di comprendere questa complessità.
Iran 1969. Viene pubblicato il primo romanzo di una donna: Suvashun, una storia persiana di Simin Daneshvar. Simin Daneshvar, figlia di un’artista e di un medico, nasce nel 1921 a Shiraz, la città dei poeti. Studia in una scuola di missionari inglesi; si laurea in lingua e letteratura persiana all’Università di Teheran e vince una borsa di studio per approfondire scrittura creativa negli Stati Uniti con Wallace Stegner “il Decano degli scrittori occidentali”, premio Pulitzer per la narrativa nel 1972. In quegli anni Simin pubblica due racconti in lingua inglese.
Si sposa con lo scrittore e intellettuale Jalal Al-e-Ahmad, in un matrimonio non convenzionale, non deciso né approvato dalle famiglie d’origine.
Al suo rientro in Iran insegna all’Accademia di Belle Arti per poi dedicarsi completamente alla letteratura, pubblicando racconti e altri due romanzi facenti parte di una trilogia rimasta incompiuta.
La prima pubblicazione di Daneshvar con il proprio nome è del 1948: si tratta di una raccolta di racconti intitolata Fuoco spento di cui la stessa autrice sarà orgogliosa. In precedenza aveva pubblicato con lo pseudonimo “Anonimo di Shiraz”.
Oltre all’attività di scrittrice, Simin Daneshvar è stata anche traduttrice di opere di Cechov, Hawthorne, Moravia e altri autori europei.
La traduzione italiana di Suvashun, una storia persiana, è pubblicata nel 2018 dall’editore Brioschi, tradotta e a cura di Anna Vanzan, islamologa e iranista che ha tradotto molte opere di narrativa contemporanea oltre ad aver scritto numerosi saggi sulla cultura persiana, in particolare sulle donne.
Già il titolo si presenta problematico: Suvashun è il nome di un rituale antico ed è intraducibile, precisa Vanzan in un articolo pubblicato sulla rivista “Tradurre”. Ma al termine del romanzo il significato della parola verrà compreso dal lettore.
La storia è scandita dai piccoli e grandi eventi che coinvolgono Zari durante gli anni della Seconda guerra mondiale, quando britannici e sovietici occupano l’Iran. Protagonista assoluta -tutti gli altri personaggi ruotano attorno alla sua figura- Zari esprime paure, frustrazioni e rabbia sia verso gli occupanti inglesi che nei confronti dei connazionali.
Infatti, durante l’occupazione britannica della regione meridionale dell’Iran, dove è ambientato il romanzo, gli iraniani si dividono in opportunisti, in chi cerca o approfitta dei favoritismi degli inglesi, in chi ne diventa servo e assume ridicoli atteggiamenti “occidentali”- dammi un’aspirina, ma che sia Baye-, tutto a discapito della popolazione, e chi, come Yusuf, marito di Zari, si mostra insofferente alla prepotenza europea e non è disposto a soddisfarne i capricci.
Zari che ci accompagna nella narrazione con la sua dolcezza e la premura nei confronti della famiglia, pur condividendo gli ideali del marito, proprietario terriero onesto e attento al benessere dei contadini alle proprie dipendenze, teme che questo suo comportamento sconvolga la serenità familiare.
Si susseguono nella narrazione episodi di forte tensione tra Yusuf e vecchi amici:
Allora Yusuf gridò: volete le provviste per darle alle truppe straniere in cambio di armi con le quali intendete attaccare i vostri fratelli e connazionali?(…) E che avrete comprato con i soldi ricavati? Armi? Brocche d’oro? Orci d’oro? Avete cucito una corona dei vostri berretti qashqai e vi siete crogiolati perché vostro zio viene chiamato sua maestà?
Se Zari all’inizio del romanzo è impotente di fronte ai soprusi, schiacciata dalla cultura patriarcale che l’ha relegata al ruolo di spettatrice, moglie e madre comprensiva e accogliente, al termine della storia giunge ad una radicale trasformazione: prende coscienza della propria autonomia e della possibilità di agire senza paura delle convenzioni.
Al marito che la rimprovera per non essersi ribellata alle richieste capricciose della famiglia del governatore, Zari si rivolge con queste parole:
Nella tua opinione e in quella di tuo padre io sono una codarda senza spina dorsale, sempre in ansia perché non accada qualcosa di brutto a qualcuno di voi…infatti non sopporto questa idea. Ma quand’ero ragazza ho avuto anch’io la mia audacia (..) Vuoi sentire dell’altra verità?! Allora ascolta, sei tu che m’hai privata del mio coraggio. Ho dovuto negoziare con te per tanto di quel tempo che adesso negoziare per me è diventata un’abitudine!
Il romanzo, ambientato a Shiraz – la città di Saadi, Hafez e Sa’di- nella casa e nel giardino di Zari e Yusuf, incanta con le sue descrizioni di ambienti, giardini di fiori e d’acqua, facendoci assaporare i profumi di gelsomino, di fiori d’arancio e di rose.
Si sente con forza lo scontro tra la cultura occidentale e quella persiana e il desiderio di molti iraniani di conservare le proprie tradizioni. Gli inglesi, ad eccezione del giornalista scozzese McMahon, figurano prepotenti e arroganti, calpestano le tradizioni religiose persiane che considerano superstizioni.
Sì mio caro- ho detto a McMahon- la gente di questa città è nata poeta, ma voi avete ucciso la loro poesia.
Quando Zari, alla fine del romanzo, teme di impazzire per gli accadimenti tragici che la coinvolgono il medico Abdollah Kahn la rassicura- Vi do la mia parola che non lo diverrete! (…) Ma avete una malattia maligna che io non posso curare. Si tratta di una malattia infettiva. Dovete estirparla prima che diventi cronica. A volte è pure ereditaria.
-Un cancro?
-No, mia cara … È la paura. Ce l’hanno in molti. È contagiosa!
Zari, consapevole di sé, del senso di giustizia e di rispetto dell’essere umano si chiede: Se il mondo fosse stato in mano alle donne, sarebbero forse esistite le guerre?
Di Simin Daneshvar , oltre al suo romanzo più famoso, sono stati pubblicati in italiano tre racconti.
Il Crepuscolo di Gialal nella raccolta I minareti e il cielo, racconti persiani del Novecento, ed. Sellerio, tradotto da Filippo Bertotti narra gli ultimi giorni di vita del marito di Daneshvar, lo scrittore Jalal Al-e-Ahmad.
Gialal riusciva ad acquietare chiunque, con i suoi occhi brunati e gentili, le labbra dolci e la voce che sapeva sfiorare, accarezzare, consolare, guidare e compatire (…) nessuno amava la giustizia come lui; nessuno detestava più di lui l’ingiustizia; o almeno, altri non ne incontrai nella vita.
Inevitabile il richiamo al giusto Yusuf.
È stata una morte limpida come la sua vita, rapida e leggera, come un lume che si smorza.
Nella stessa raccolta c’è un racconto dello stesso Jalal Al-e-Ahmad, I minareti e il cielo, che dà il titolo al volume. È un racconto sull’infanzia e sul desiderio di sfidare le regole degli adulti: due ragazzini vogliono raggiungere la cima proibita di un minareto.
Il guaio era che ti mettevano addosso una gran voglia di salire, i minareti della moschea. Non che avessero niente di speciale, quei minareti, ma chissà perché li avevamo sempre negli occhi.
Nell’introduzione del curatore, Jalal Al-e-Ahmad viene così descritto: Fu tra gli intellettuali iraniani del dopoguerra forse il più ascoltato e influente, certo il più lucido e coraggioso nell’affrontare nodi cruciali della moderna storia persiana: la penetrazione economica delle potenze occidentali, l’acculturazione, la distruzione del retaggio culturale e religioso, la responsabilità della classe intellettuale e il distacco tra quest’ultima e il popolo, che egli più di ogni altro percepì e patì.
Gli altri due racconti di Simin Daneshvar, tradotti da Anna Vanzan sono Una testa e un cuscino, all’interno della raccolta Parole svelate, racconti di donne persiane, e A teatro, nel libro Le rose di Persia, nove racconti di donne iraniane.
Simin Daneshvar, ammirata in Persia e considerata un simbolo di indipendenza, è morta a Tehran l’8 marzo 2012. Anna Vanzan a Venezia il 24 dicembre 2020.
di Roberta Basché