“È stato morto un ragazzo” – Il racconto del calvario degli Aldrovandi nel documentario di Filippo Vendemmiati
febbraio 13, 2015 in Approfondimenti, Cinema da Sonia Trovato
“Ho sempre pensato che sopravvivere a
un figlio fosse un dolore insostenibile. […]
Ora mi rendo conto che in realtà non si sopravvive.
Una parte di me non ha più il respiro, la luce, il futuro,
perché il respiro, la luce, il futuro sono stati tolti a lui”
(Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi)
In una delle scene finali di Arancia Meccanica, il protagonista, “guarito” dal metodo Ludovico, si imbatte nei vecchi compagni di violenza, ritrovandoli ripuliti in una divisa di polizia. Per dei vecchi drughi come noi il lavoro più adatto è questo: poliziotti spiegano, tra un ghigno e l’altro, i due agenti, prima di tentare di soffocare Alex in una fontana e riempirlo di manganellate. Ma la vicenda raccontata in È stato morto un ragazzo, documentario firmato dal giornalista e regista Filippo Vendemmiati, non è ambientata nell’Inghilterra distopica e futurista nella quale i drughi di Burgess/Kubrick si drogavano di lattepiù, pregustando le imminenti scorribande notturne. Siamo infatti a Ferrara, città dotata di opinione pubblica e società civile reattive, di un sistema d’informazione diffuso e disposto a diffondere notizie e spiegazioni e a non subire condizionamenti. E il ragazzo che “è stato morto” all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione, era un diciottenne, studente incensurato, integrato, di condotta regolare, inserito in una famiglia di persone perbene (frasi estratte dalle motivazioni della sentenza).
È il 24 settembre 2005 e Federico Aldrovandi, con alcuni amici, trascorre il sabato sera in un centro sociale bolognese. Due birre, qualche sniffata e due francobolli di lsd non fanno di lui un tossicodipendente e non bastano a giustificare il fatto che, dopo poche ore dal rientro del gruppo a Ferrara, una pozza del sangue di Federico, ormai senza vita, bagni l’asfalto di via Ippodromo. La madre Patrizia Moretti, impiegata comunale, e il padre Lino Aldrovandi, vigile urbano, accorgendosi che le lenzuola del primogenito sono intatte, iniziano a telefonare all’impazzata al cellulare di Federico. Dall’altra parte, come chiarirà un video girato dalla scientifica, gli agenti che, presi dal panico, ignorano deliberatamente lo squillo incessante del telefono. È l’incubo di ogni genitore: il figlio non rientra, lo chiami e non risponde. La mattinata che attende Patrizia e Lino travalica, però, qualsiasi casistica contemplata dal manuale per padri e madri. Cinque ore dopo il decesso, è un amico di famiglia e agente della Digos a suonare il citofono degli Aldrovandi e a dare inizio al tornado emotivo che li travolgerà.
Federico è morto per un misterioso malore. Federico era un tossico vestito da centro sociale. Federico era impazzito, prendeva a testate i pali ed è saltato sul parabrezza della volante. Federico ha tentato di sfilare la pistola di un agente, che non ha potuto non atterrarlo. Federico sembrava un extracomunitario, saltava su se stesso, ringhiava tra il buio degli alberi, aveva il collo taurino. Federico era una bestia. E i nostri manganelli sono di gomma e sono vecchi di vent’anni, è facile che si rompano. Così i poliziotti Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto si sono difesi al processo che li ha visti imputati per omicidio in eccesso colposo.
Senza la tenacia della famiglia e senza la solerzia dello studio legale di Fabio Anselmo, la vicenda si sarebbe chiusa con un’alzata di spalle e con un succede anche nelle migliori famiglie. E invece no, perché se il decesso di un diciottenne è possibile, pochissimi, o forse nessuno, muoiono nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi, con la cassa toracica schiacciata, la testa sfondata, ematomi su tutto il corpo, gli abiti completamente imbevuti di sangue e il cadavere lasciato a marcire, senza nemmeno un lenzuolo, sulla strada, per dare tempo alla questura di costruire una versione di comodo. L’importante è che non vadano di mezzo i colleghi, si dicono due agenti intercettati.
Via Ippodromo è una zona residenziale, ma nessuno ha avuto il coraggio di contraddire la versione della questura di Ferrara. Sarà Anne Marie Tsagueu, una cittadina camerunense in attesa del permesso di soggiorno, a restituire all’opinione pubblica gli ultimi, strazianti momenti di Federico, preso a calci e a manganellate e morto per compressione del torace. E saranno le indagini degli avvocati degli Aldrovandi a portare a galla il sistema di omissioni, menzogne e depistaggi che, come in altri casi balzati tristemente alle cronache più recenti, ha coinvolto poliziotti, questori, infermieri e medici legali. Il documentario, edito nel 2010, si chiude con le condanne a tre anni e sei mesi ai quattro agenti e a quella di otto mesi ad altri tre poliziotti, accusati di omissione d’atti d’ufficio e favoreggiamento. Non arriva pertanto a testimoniare le rivoltanti manifestazioni di protesta del sindacato di polizia, il Coisp, sotto l’ufficio di Patrizia Moretti. Non registra le vergognose dichiarazioni di Maccari e di Giovanardi, secondo cui l’ormai nota foto di Aldrovandi sfregiato sarebbe un fotomontaggio. Ancora, non fa in tempo ad assistere all’indulto del quale hanno beneficiato gli agenti condannati, all’applauso loro rivolto dal Coisp, al loro reintegro nel corpo di polizia, fatti che smentiscono qualsiasi elucubrazione sulle cosiddette “mele marce” e palesano, al contrario, un inquietante e diffuso sentimento di impunità e di cameratismo.
La telecamera di Vendemmiati non si interessa solo al calvario processuale. È stato morto un ragazzo si avvicina, con rispetto e pudore, anche alle piaghe del cuore di chi ha conosciuto Federico e non potrà mai vederlo crescere. È facile, guardando il documentario, immedesimarsi empaticamente nel dolore della famiglia, che ancora tiene lo zaino e i test per una patente mai presa nella camera di Federico. È facile comprenderne il dolore insanabile, la fame di giustizia, l’amara consapevolezza che qualsiasi condanna non restituirà il figlio all’intimità domestica e non tornerà a far suonare il suo clarinetto. È altrettanto facile comprendere lo strazio degli amici, i quali, ignari della morte di Federico, furono prelevati a forza dalla polizia e accusati di aver abbandonato un amico in strada in stato confusionale. È facile disperarsi con loro per la dolorosa constatazione che non ci saranno più partite di calcio o concerti o confidenze, che non si arriverà mai insieme a un’età in cui ripensare ai diciotto anni con gioia e nostalgia. È impossibile, almeno per chi scrive, identificarsi con quattro agenti che, forti della loro divisa, hanno ucciso un diciottenne inerme, senza motivo, macchiando la bella e silenziosa Ferrara di una brutalità che nemmeno Burgess o Kubrick avrebbero potuto immaginare.
“Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare”
(Fabrizio De Andrè)
P.S. La scelta di inserire nell’incipit un’immagine così cruda è un atto dovuto alla famiglia Aldrovandi, che di quella foto ha fatto l’icona di una lotta per la verità.
Il documentario è visibile gratuitamente in streaming al seguente link: http://www.distribuzionidalbasso.com/e-stato-morto-un-ragazzo/
Per un approfondimento sul caso Aldrovandi e su altri casi analoghi, si veda la puntata di Presa Diretta del gennaio 2014: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-762c5cad-4b14-4fbc-903d-1518895075dd.html