Mediatori culturali e divagazioni sulla democrazia
settembre 26, 2017 in Approfondimenti, Recensioni da Marco Castelli
La settimana scorsa c’è stata una strana apparizione sulla mia scrivania. È un libretto piccolo, d’un centinaio di pagine, dalla copertina rossa che fa risaltare il titolo sul dorso, scritto a lettere eleganti: “Language & the pursuit of truth”. I cinquant’anni dell’edizione trovano conferma nel colore delle pagine e nell’inconfondibile odore di biblioteca. Non riesco a capire se sia stato prima in possesso della “Teesside University Library” o del “Nottingham College of Education Library”, ma i due timbri rossi “withdrawn from stock” sono la mia garanzia contro le accuse per furto del famoso sceriffo della cittadina inglese. Il libro è interessante, forse un po’ datato nelle sue teorie e sicuramente pervaso di quella filosofia del “Common sense” che insieme all’ideale del “comfort” rappresenta l’anima anglosassone. La lettura è stata tuttavia pian piano schiacciata da un dubbio che, a tutt’ora, non ha trovato soluzione: perché, un giorno d’agosto, ho lanciato l’ordine per questo volume? Ritornando indietro con la memoria mia e, soprattutto, con quella più sicura del computer, risalgo ad un volume inserito nella lista desideri “Da leggere” di Amazon verso il Novembre dell’anno scorso e poi ordinato solleticato dal titolo interessante e – forse soprattutto – per riempire il cestino ed ottenere una consegna gratuita. Dovendo purtroppo escludere, quindi – tragica storia questa della memoria virtuale – un regalo di una misteriosa quanto sicuramente seducente amica inglese, il dubbio rimane aperto: per che via, un giorno che immagino buio ed uggioso, decisi che questo libro sarebbe potuto essere letto? Ne ho forse trovato la recensione in una rivista? Difficile, visto che si tratta ormai d’un libro scartato dalle biblioteche… L’ho trovato citato in qualche altro volume? Più probabile, anche se non sono uso ai problemi di linguistica. Vi sono capitato saltellando affamato tra i link di qualche libreria virtuale? Qualcuno me ne ha suggerito l’acquisto? Un amico? Un parente? Un professore? Mistero fitto come la nebbia che secondo me occupava le strade di quel giorno di novembre.
Sono strane e diverse le strade che portano un volume ad arrivare sul comodino. Possono esserci casi in cui la sua lettura è programmata da tempo, desiderata come un lento corteggiamento, come altri nei quali l’avvicinamento è dovuto più alla noia, sotto il dominio della quale ci si affida ai consigli di amici dai gusti più vari, all’intelligenza dei librai, al titolo rubato al vicino sotto l’ombrellone. È in questo campo variegato che si inserisce l’azione dei “mediatori culturali”, ovvero quei bizzarri figuri che, tramite i più vari “media”, danno consigli di lettura (ma anche d’ascolto o visione) tramite una valutazione suggellata da una loro “autorità”. Autorità di gusto acquisita nei modi più vari: per la rilevanza del medium (rivista, programma, sito) e la selezione che presuppone, per onori accademici, per la capacità di scrittura, semplicemente per il presenzialismo e la frequenza degli interventi sui blog. Varie qualità che, come nota Nathan Heller nel suo articolo sul New Yorker “How to be a critic in an age of opinion”, sono tuttavia abbastanza «unreliable».
La figura del critico come oggi la conosciamo ha vissuto una lunga gestazione: nei tempi delle monarchie il potere politico (che d’altronde era spesso anche giudiziario e religioso etc. etc.) era anche potere sul gusto: tutte le opere d’arte erano presentate a Corte e dalla Corte nasceva il “placet”, prima segno di gusto che di censura. Se i moderni Virgilio possono evitarsi le letture davanti al triclinio dell’Imperatore è essenzialmente grazie a quell’insieme di eventi sociologici e politici della Francia del XVII i quali, prima di far cadere qualche testa coronata, portarono all’organizzazione dei vari Salon nella cornice del Louvre: una delle prime volte in cui il “gusto” che decretava il vincitore non era quello dei cortigiani ma quello dei giornalisti, più o meno qualificati, che tra il pubblico commentavano le opere. Indipendentemente dalle analisi storiche, che andrebbero sfumate per i singoli quadri nazionali, il dato di fatto è dunque che a partire dalla nascita della sfera pubblica borghese tra i vari strumenti che hanno collegato un prodotto culturale ad un fruitore quello che ha soppiantato gli altri è indubbiamente il parere del mediatore culturale, del critico.
I mediatori culturali negli ultimi secoli si sono sviluppati con i media più vari: al dominio dei giornali, che con le loro terze pagine disegnavano le tendenze e le linee di forza del campo culturale, si è passati alle tribune televisive e radiofoniche per giungere alla rete del web, nella quale, grazie alla facilità di pubblicazione ed a tanto “volontariato culturale” si sono moltiplicati i siti specializzati in recensioni.
In questo paesaggio sfaccettato il libretto “Leggere, cosa e come” di Giorgio Zanchini presenta un’utile istantanea sulla situazione dei mediatori e delle vie del consumo culturale nell’epoca del 2.0. Zanchini si chiede se nel mondo virtuale di oggi la figura del “critico” come soggetto che analizza un’ “opera” per darne un giudizio estetico argomentato abbia ancora diritto di cittadinanza. Non è forse che il democratico web sul quale si permette a chiunque di dire la sua su qualsiasi oggetto, senza filtri né di linguaggio né di qualità, possa definitivamente pensionare questi ruoli da prima modernità? Tutti possono leggere. Tutti possono commentare. L’uguaglianza perfetta raggiunta nel campo culturale? La liberazione finalmente dalla divenuta pesante élite degli “arbitri elegantiæ”? L’assenza dell’élite rappresenterebbe quindi una forma di liberazione?
L’Autore si chiede se «siamo in grado di leggere tutti i dati e le riflessioni che potenzialmente ci offre la rete? Abbiamo il tempo e la preparazione per farlo?». La risposta non può essere che negativa. Senza un principio di legittimazione e di cernita della parola critica il rischio è che la stessa perda la sua forza intrinseca per smarrirsi in un chiacchiericcio nel quale la voce dello studioso vale come quella dell’appassionato della domenica. Non sempre «diverse voci fanno dolci note»: il rischio è che non facciano semplicemente capire niente.
Questo fenomeno si iscrive inoltre in una cornice storica nella quale l’evoluzione tecnica permette una produzione elevatissima di libri (ma anche di film e canzoni): si è passati paradossalmente da un contesto in cui la quantitativamente minore offerta letteraria veniva organizzata tramite una serie di poche guide culturali e intellettuali che potevano condizionare realmente i consumi, ad un’esplosione di traduzioni e ristampe, nel contesto delle quali però si è anche indebolita la voce che può guidare ad un approccio consapevole alla molteplicità. Se leggere tutto era ed è sempre più impossibile, il ruolo del mediatore dovrebbe essere sempre più rilevante.
È forse un’accettazione dell’impossibilità della democrazia questa? Sicuramente il problema della critica, in quanto legato alla formazione di un’élite (con i relativi caratteri di chiusura e distinzione) è un problema lato sensu politico, che è stato nel tempo risolto parallelamente al problema stricto sensu politico. Come si è passati da un’élite liberale che era casta politica ed élite culturale, così si è passati con la massificazione al concepire l’importanza del “principe moderno”, il partito politico, che trovava il suo alter-ego (la sua “grancassa” secondo Togliatti) nelle case editrici e nelle riviste, che selezionavano la classe culturale come i partiti selezionavano la classe politica.
Per capire quanto manchi questo filtro oggi basta vedere i capibastone che siedono in parlamento. E le classifiche di lettura, certamente, per il pendant culturale.
La mediazione è una funzione che non può essere eliminata della democrazia, ma va resa pubblica secondo i criteri già illuministici dell’«utilizzo pubblico della ragione» di kantiana memoria. Democrazia politica e culturale non è – oltre a difesa delle minoranze ed agli “universali procedurali” bobbiani – dire qualcosa su tutto, ma essere messi nelle condizioni di valutare e comprendere le posizioni di coloro che, per studi o altre alchimie, sono competenti (funzionalmente prima ancora che culturalmente) ad esprimere una certa opinione. È la visione già di Alain e poi ripresa recentemente da Pierre Rosanvallon del “peuple surveillant”. Per poi criticare il critico, ma permettendogli prima di esprimere una visione completa. Il paragone potrebbe poi essere ancor più attualizzato: la democrazia parlamentare moderna sta certamente degenerando in forme di “sondocrazia”, dove la prospettiva politica è ridotta all’arco temporale tra un sondaggio d’opinione e l’altro. Parallelamente ci si potrebbe chiedere quale sia l’effetto sul critico culturale il sapere in ogni momento via internet i dati di visualizzazione del suo operato: quante persone lo leggono, con che reazioni, etc.
lI principale sito di cinema italiano (Mymovies.it), ad esempio, accanto alle recensioni pone un pulsante per far esprimere al lettore l’opinione sul testo: sono d’accordo, non sono d’accordo. Tutti i siti (e l’informazione è capitalizzata in quelli che affidano le proprie revenue alle pubblicità on-line) sanno con esattezza gli articoli che vengono letti, il numero di volte che l’utente ci capita sopra, la fonte (social, link, motore di ricerca) ed il tempo speso su ciascuna pagina. Quale autonomia od indipendenza? Quali gli spazi per andare in “direzione ostinata e contraria”, magari sostenendo la grandezza di autori minori oppure criticando il mainstream (che può essere anche il mainstream degli alternativi).
Il paragone si ferma tuttavia (forse) qui: se il vertice politico (parlamentare o governamentale) è abbastanza chiaro, non vi è davvero la necessità di una cuspide culturale, visto che, a differenza dell’organizzazione necessaria dello Stato, il discorso letterario può scindersi in rivoli che non dialogano tra loro e non c’è necessità che lo facciano. Una balcanizzazione culturale può realizzarsi – a differenza di quella politica – senza armi: provoca un effetto “bolla di sapone”, nella quale (come sui social network) ciascuno legge (e ascolta o guarda) solo cose che appartengono al suo quadrante culturale, senza confronti e contrasti, visto che vengono a mancare coloro che possano dare visioni d’insieme e collocare (autoritativamente) un libro (film, CD), in un quadro generale.
A pesare di questa differenza, può essere quindi ripetuta la vecchia opinione di Gaetano Mosca sulla necessità di un’élite (la «legge di ferro dell’oligarchia», dirà Michels): «In tutte le società regolarmente costituite, nelle quali vi ha ciò che si dice un governo, noi oltre al vedere che l’autorità di questo si esercita in nome dell’universo popolo, oppure di un’aristocrazia dominante, o di un unico sovrano […] noi troviamo costantissimo un altro fatto: che i governanti, ossia quelli che hanno nelle mani ed esercitano i pubblici poteri, sono sempre una minoranza e che, al di sotto di questi, vi è una classe numerosa di persone, le quali non partecipano mai realmente in alcun modo al governo, non hanno che subirlo; esse si possono chiamare i governati»
Conclude Zanchini il volumetto: «È vero che la rete ha travolto tutto, ma sarebbe più corretto parlare di un cambio di paradigma che come tutti i cambi di paradigma impone nuove gerarchie, nuovi sistemi di potere, e nuovi sistemi di certificazione. L’apparente disordine portato dalla rete non ha generato il caos ma nuovi ordini, collocazioni, riassestamenti. Che vanno descritti, analizzati, criticati». Della confusione del “reale” i mediatori culturali sono stati d’altronde spesso specchio: se i dotti e puri elzeviri dei giornali italiani non mi risulta abbiano mai fatto scoppiare una rivoluzione questa medaglia è stata meritato sul campo dai mercanti di volumi sottobanco della Francia della seconda metà del Settecento. Questi contrabbandieri della cultura non vendevano solo i volumi dei Lumi, ma le liste dei “livres philosophiques” (e quindi vietati) contenevano essenzialmente volumetti pornografici o politico-pornografici – Maria Teresa sembra fosse un soggetto prediletto -, che in numero schiacciavano Rousseau, d’Holbach e Voltaire (i quali tuttavia ringraziano per la dolce compagnia). Allo stesso mediatore ci si riforniva tanto per leggere le “rêveries” quanto per averne di piccanti sulle dame di corte, come oggi il medesimo strumento informatico può essere utilizzato per vedere i video dell’ultima serie di Ulisse (sempre sia lodato) o per cercare le immagini delle ultime star della giarrettiera.
O tempora, o media!
P.S. Questo scritto voleva essere una recensione del volume “Leggere, cosa e come – Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete” di Giorgio Zanchini, edito da Donzelli. Tuttavia, in considerazione del fatto che all’interno dello stesso libro viene evidenziato come la migliore pubblicità per un libro non sia una recensione dello stesso, ma lo sviluppo di un discorso nel quale si fa riferimento al volume stesso si è provato a seguire, bene o male, il suggerimento.