Mazzarò è il re dei pusher e Dante un galeotto
marzo 14, 2020 in Recensioni da Mario Baldoli
Come si sa ma non si dice, Verga Giovanni né fu naturalista, verista, realista o altro, era – cercando sigle come fossero tartufi – soprattutto un simbolista.
I romanzi, i racconti – pensa alla Lupa o a Rosso Malpelo – sono simboli potenti.
E quel simbolo davanti al naso è evidente, forte, ma necessita di gente pratica, così come il grimaldello infilato sotto una serratura è in proporzione inversa al sonno del critico sopra una pagina.
Per venire al concreto: Verga fa arricchire ferocemente Mazzarò perché quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
La classe – siamo in un carcere – ha capito e romba. Poi quando legge che anche la roba pareva fatta per lui, il rombo cresce e conferma la certezza: Mazzarò è il re dei pusher. E ci andava forte anche Kafka, se è vero che in una notte scrive La metamorfosi.
Le dollar fait la merde, sentenziava il Sessantotto francese, e la merde è una delle tracce che il pusher si lascia dietro. In classe Mazzarò non è però un simbolo, è un tizio in carne e ossa, conosciuto e frequentato. Per capirlo basta stare dietro le sbarre di una prigione, luogo dove nessun critico è mai entrato pur scrivendo di grimaldelli mai usati.
Anche Freud spiegò l’avarizia, la passione per la roba -nevrosi e psicosi – sempre infilandola nei dintorni della merde.
In carcere c’è una cultura che attraversa tanti livelli, ma che spinge alla verità come un’onda del mare viaggia alla spiaggia. E’ proprio per farsi una cultura full immersion nella verità, che Sonia è andata a insegnare in un carcere, per vedere e sapere ciò che sta sotto il proprio naso.
Lì si è liberi da Instagram, dalle nevrosi natalizie, dall’arroganza delle vetrine, dai saldi che durano tutto l’anno, e si sa che le telecamere ti vedono sempre, a differenza di chi è “libero” che non si accorge di essere controllato e di obbedire passivo al Grande Fratello.
In carcere si sa che Gramsci, conosciuto dai “liberi” come un cognome impronunciabile, un sardo, è invece una via cittadina dove forse si è fatto qualche “lavoro” e se uno si chiede in un momento di sconforto: mio padre faceva il ladro. Io potevo fare il direttore di una banca? La risposta è ovvia: ringrazia la galera che eviti il falso in bilancio.
Il carcerato legge chiaro e coglie la retorica, per esempio, della poesia che Ungaretti dedica alla madre morta: Statua davanti all’eterno. Il carcerato è sveglio e ne snida la finzione letteraria, la trova fra le poesie di Brecht:
Quando non ci fu più la misero nella terra
Lei era leggera, premeva la terra appena.
Quanto dolore ci volle per farla così leggera.
Ecco prof, Quando non ci fu più la misero nella terra, è questa la verità, altro che l’eterno.
A scuola si impara che ci sono vari complementi che la grammatica definisce con la consueta parzialità a favore del potere: dal soggetto al moto per luogo al complemento d’agente.
L’Agente? Prof, ma anche gli agenti hanno un complemento? Cosa fanno per meritarselo? Problema spinoso, risposta incerta. Proponiamo ai grammatici di cambiargli nome.
Dietro alle sbarre c’è un mondo stretto al negativo? Neanche per sogno, scrive Sonia, se I promessi sposi non hanno successo (fecero un effetto negativo anche a Goethe), l’ammirazione per Il barone rampante, Cosimo Piovasco di Rondò, è genuina.
Il baronetto è un ragazzotto che infrange le regole, lascia per sempre la casa e cavalca libero solo gli alberi cambiando anche regione, conosce l’amore, incontra briganti e vanno a trovarlo i filosofi perché come chi vuole guardare bene un quadro deve tenersi a una qualche distanza, così dal carcere le cose si vedono magari da lontano, ma più chiare. Lo dicono anche gli astronauti.
Allora seguo Sonia Trovato, Come Pinocchio nella balena. Scuola e letteratura in carcere, Prospero editore 2019, una sorta di diario scritto limpido e con gran gusto anche nella presentazione.
Il carcerato si definisce nella casa che lo ospita:
Siamo nella pancia della balena,
ha sbarre di ferro e porte blindate,
ci ha risucchiato e ingoiato,
ma siamo sopravvissuti.
E’ una strofe della poesia con cui hanno partecipato al concorso letterario “errore e riscatto”, e in quella poesia, se ammettono di aver frequentato il gatto, la volpe, Lucignolo e il paese dei balocchi, ora soffrono perchè:
Qui dentro ci è rimasto solo il grillo parlante
Che ci assilla e ci tormenta.
Infatti, Siamo ancora di legno
Ma forse un giorno potremo (ri)prenderci la vita.
Il Grillo parlante, saccente, didattico e punitivo fa pensare: ma siamo ancora uomini? Scoramento legittimo, se non fosse che “i liberi” sono più macchiette che veri uomini e donne, abitano il Panopticon di Bentham – il giurista filosofo che inventò il carcere più economico ed efficiente – senza saperlo mentre l’allegro Panopticon li carica di nevrosi.
Anche la prigione è postaccio: un fracasso continuo, manganelli che sbattono contro le sbarre, si sa mai che qualcuno le abbia segate, urla che arrivano, mentre in una stanza sorvegliata l’insegnante insegna.
In prigione la classe è mobile: colloqui con l’avvocato, lo psicoterapeuta, i parenti. E poi si ritorna, perché la letteratura allarga la mente, rompe la monotonia, fa sentire meglio (il che non succede a tanti studenti). Poche le donne in classe, spesso impedite dall’obbedienza imposta dai maschi, a volte anch’essi reclusi e in ansia per la castità dell’amica o moglie che sia.
Però alcune donne frequentano le lezioni, donne che fanno sognare, ninfe che stanno nei banchi dell’ultima fila, con cui un biglietto (anche due) si scambia sempre volentieri, farfalle che volano all’indietro e attendono una risposta più seria di quel battito d’ali che smuoverebbe la terra.
Il carcerato si accorge che Dante la sapeva lunga: galeotto fu il libro e chi lo scrisse, la definizione che meglio esplicita chi vive dietro le sbarre, galeotto che ha un duro coraggio, deciso a non vivere come si sogna, soli. Galeotta e galeotto che si sposano – perché no? – anche in carcere.
Finita l’ora l’insegnante esce: dove vai adesso? È la domanda che le pongono dal primo all’ultimo giorno, l’ultimo giorno di scuola lei piange.