Lo splendido tricolore delle Repubbliche marinare
agosto 10, 2021 in Interviste da Mario Baldoli
Nostra intervista al prof. Ermanno Orlando, docente di Storia Medioevale all’Università di Siena
Professore, il suo libro Le Repubbliche marinare, ed. Il Mulino, ha la peculiarità di muoversi sul mare, raccontare i nostri comuni Amalfi, Pisa, Genova, Venezia dal mare, riducendo al minimo gli eventi sulla terraferma. Lei comincia con una clamorosa affermazione: quei quattro stemmi sul nostro tricolore “sono uno scherzo del destino”. Cosa vuol dire?
La ricezione degli stemmi delle quattro repubbliche marinare nell’emblema araldico della marina italiana rappresentò l’affermazione di un mito storiografico. A coniare per la prima volta il concetto di “repubbliche marinare” fu, infatti, uno storico svizzero agli inizi del XIX secolo, Simonde de Sismondi. Nella sua Storia delle repubbliche italiane del medioevo, grande racconto dell’età comunale e della sua civiltà, Sismondi individuava alcune città che si erano contraddistinte per la loro vocazione marittima e intraprendenza commerciale, le repubbliche marinare appunto. Tale definizione, anche se appena abbozzata, consegnava al Risorgimento italiano un canone storiografico e culturale che avrebbe in seguito goduto di una crescente fortuna. Ma fu solo durante l’Italia fascista, quando si cominciarono a elaborare politiche consapevoli di potenza mediterranea e conquista coloniale, che i processi di elaborazione del canone giunsero a piena maturazione. Fu allora che il concetto storiografico fu definitivamente messo a fuoco e il numero delle repubbliche marinare fu convenzionalmente fissato a quattro: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia.
A suggellarne, anche a livello di cultura diffusa, l’immagine di potenza contribuì poi in maniera determinante proprio lo stemma della Regia marina, così come formalizzato tra 1941 e 1947: il paradigma, così come il mito, avevano in tal modo ottenuto la loro definitiva consacrazione. Per uno strano scherzo del destino, tuttavia, proprio lo stemma della Marina militare rappresentò uno spartiacque. Sul versante storiografico, infatti, la nozione di repubbliche marinare aveva da allora conosciuto una perdita di interesse e un progressivo accantonamento, dovuti proprio a quella forzatura terminologica iniziale, che aveva accomunato sotto la medesima espressione – repubblica – quattro realtà tra loro eterogenee e difficilmente riconducibili, sotto l’aspetto costituzionale, a unità. Di contro, a livello di cultura diffusa il concetto di repubbliche marinare non aveva smesso di beneficiare di un consenso largo e di una riconoscibilità immediata, alimentati anche dal folclore e dalla forza delle tradizioni, almeno da quando, nel 1956, era stata organizzata la prima regata storica, o palio, delle antiche repubbliche marinare, che ancora oggi si disputa a rotazione fra le quattro città. In qualche modo, insomma, il mito e la sua rappresentazione si erano presi la rivincita sulla storia ufficiale e accademica.
Detto questo, è evidente che il mito delle repubbliche marinare, così come ogni altro mito, in quanto strumento di comunicazione sociale e di elaborazione delle passioni collettive, oltre che di propaganda e legittimazione, rappresenti un accesso insostituibile nell’immaginario collettivo e nella sensibilità di un popolo e di una nazione, anche riguardo al tema che fa da base al libro, ossia la storia, il senso e la percezione del mare. Dunque, per rispondere alla domanda, sì: l’invenzione e il mito possono essere più belli della realtà. Tuttavia, nella sua estrema fascinazione, il mito può risultare insidioso, prestarsi a pericolosi abusi e mistificazioni. Spetta pertanto allo storico decostruire e storicizzare il mito, superare la leggenda, spogliare il racconto di ogni retorica o distorsione e riconoscerne le manipolazioni, anche a costo di togliere poesia e fascino alla narrazione. Perché, in fondo, una bella pagina di storia rimane interessante anche senza l’apporto del mito e delle sue innegabili suggestioni (e tentazioni); e perché, ancora più in fondo, il mito stesso è una pagina di storia e come tale va raccontato e interpretato.
Immaginiamo: cosa sarebbe stata e cosa sarebbe l’Italia senza le città marinare? Senza comuni buttati nel mare?
Bella provocazione: il Mediterraneo, sin dalla più remota antichità, è stato il centro, l’orizzonte e l’immediata continuazione della penisola italiana. Non a caso, anche nel libro il protagonista assoluto è il mare. Il punto di partenza e di arrivo di ogni narrazione è sempre e soltanto il mare: la terra, le vicende politiche interne, i cambiamenti di regime, le dinamiche sociali rimangono sullo sfondo, mentre sulla scena l’unico vero e incontrastato primattore è la dimensione marittima delle quattro città marinare – Amalfi, Pisa, Genova e Venezia –, complessivamente declinata. Una storia delle repubbliche marinare, infatti, non può che essere un capitolo della più ampia storia mediterranea, cioè di quella vasta e diffusa koinè, non solo geografica, ma anche umana, sociale, economica e culturale, che è stata e continua a essere il Mediterraneo. Per una storia simile l’unica prospettiva possibile non poteva che essere il mare: di ognuna di tali città il mare, infatti, è vita, frontiera, prosperità, scontro-confronto-incontro.
Peraltro, per tutto il medioevo, il Mediterraneo non fu mai avvertito come una realtà divisiva, nonostante le conclamate divisioni interne: semmai esso fu inteso come spazio di collegamento e incontro tra Oriente e Occidente e tra culture, lingue e civiltà diverse. Di fatto e nella percezione comune esso era uno spazio di profondo movimento e di continua interazione, capace di mettere in relazione e creare connessioni vitali tra le sue diverse sponde e le genti che in esse abitavano. Certo, esso fu uno spazio anche di profondi contrasti e, talora, di violente contrapposizioni; ma mai tali da inibire le connettività, non solo economiche, o da creare barriere insormontabili agli incontri, al confronto e allo sviluppo di una fitta rete di collegamenti e interdipendenze, il mare della vicinanza e dell’intimità: definizione pertinente, se vi aggiungiamo pure la sua straordinaria capacità di creare contatti e di favorire le mescolanze e le contaminazioni.
Eppure la medievistica italiana ha voltato le spalle al mare, si è occupata pressoché esclusivamente di terra, di città, di comuni, di strutture, fenomeni, questioni e problematiche legati quasi esclusivamente al continente. Perché?
Del mare ci siamo a lungo disinteressati o vi abbiamo guardato con sospetto, diffidenza e disagio. C’è un’ombra nel nostro passato che probabilmente non abbiamo ancora del tutto dissipato e che non ci permette di calarci appieno nella nostra dimensione marittima, sia dal punto di vista storiografico che politico: mi riferisco alle aggressive e fallimentari politiche coloniali e talassocratiche elaborate nel secolo scorso dall’Italia prima liberale e poi fascista. Ciò nondimeno, proprio in questi ultimi anni si intravvede una svolta. Se non abbiamo ancora fatto del tutto i conti con i fantasmi del passato, abbiamo tuttavia capito che per comprendere in profondità il medioevo, e in particolare quello italiano, non si può affatto prescindere dal mare, dai suoi orizzonti aperti e dalla sua natura così intimamente porosa, fluida e disponibile al contatto e alle connessioni. Ebbene, anche il mio libro si inserisce in questa svolta, volendo essere anch’esso una pagina di storia del Mediterraneo.
Quale, quanta ricchezza culturale e materiale, abbiamo acquistato dal mare?
L’epopea delle “repubbliche marinare” ci ha lasciato un patrimonio di cultura e civiltà di cui siamo ancora oggi profondamente debitori. La prima e più importante eredità lasciataci dalle quattro città marinare è, in tal senso, del tutto immateriale: un contributo appunto di civiltà, all’interno di quella vasta koinè umana, economica e culturale che fu e continua a essere il Mediterraneo. Ma esse furono anche vettori di incontro, confronto e ibridazione tra culture, lingue, saperi e conoscenze. Si pensi, per esempio, al contributo dato in termini di sviluppo delle pratiche commerciali, finanziarie e contabili, o al concorso offerto alla evoluzione delle tecniche di navigazione – quella che un tempo si definiva la rivoluzione nautica del medioevo. E per fare un altro rapido esempio, la definizione di un diritto internazionale del mare: un diritto che valeva per tutti i naviganti e i marinai senza essere stato di fatto emanato da nessuno, frutto di apporti plurimi, congiunti e consolidatisi nel tempo, forniti da ciascuna di esse con i propri statuti marittimi e le proprie leggi del mare.
Le città marinare ci hanno tramandato anche una eredità materiale. Sono innumerevoli, infatti, le vestigia che quel passato ha disseminato non solo nel Mediterraneo, ma anche in diverse altre parti del continente; basti pensare alle tante evidenze architettoniche superstiti, dalle logge e palazzi veneziani diffusi lungo tutto l’Adriatico e l’Egeo, alla torre genovese di Galata a Istanbul o alla Saaihalle di Bruges, sede della stessa natio genovese. Non si dimentichi, per esempio, che Venezia, nel momento di costruire e progettare il suo ampio Commonwealth marittimo, aveva investito molto, nei territori e nei quartieri soggetti al proprio dominio, sulle politiche edilizie, avviando ovunque una sorta di ‘venezianizzazione’ degli spazi, finalizzata a creare anche oltremare ambienti di propria impronta – o altre Venezie – con evidenti intenti politici, propagandistici e identitari. Basta percorrere le coste istriane e dalmate, o avventurarsi in qualche isola ionica o egea, per imbatterci in logge, palazzi goticheggianti, polifore, leoni alati, chiese di San Marco, piazze d’acqua che, nonostante ogni successiva trasformazione o mistificazione, richiamano immediatamente la loro passata appartenenza a una delle città marinare più potenti espresse dal medioevo italiano.
di Mario Baldoli