Lo schiaffo di Balata [7]
febbraio 19, 2014 in Palestina da Sonia Trovato
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
Nothing is changing. È questo il ritornello che si ripete incessante a Balata. Siete a Nablus, una delle più città più popolate della Cisgiordania, ma Balata è una città nella città, con la propria moschea, il proprio supermercato, la propria scuola. Balata è un campo profughi, il più grande della Palestina occupata. Venne fondato nel 1950 dall’UNRWA, agenzia delle Nazioni Unite nata per fronteggiare l’emergenza degli sfollati palestinesi, e fu battezzato Yafa, dato che il 75% dei profughi proveniva da Jaffa, antichissima città araba oggi ridotta a controcanto artistico della modernissima Tel Aviv. Il campo, per dieci anni sprovvisto di luce, elettricità, infrastrutture, sistema fognario, venne costruito su una superficie di 1 chilometro quadrato, per ospitare 5,6 mila persone. Ora le persone sono diventate 29 mila, ma l’estensione non è aumentata di mezzo millimetro. Le tende piantate inizialmente sono state sostituite da unità abitative di 3 metri per 3. Il risultato è una vita durissima, che ognuno deve condividere forzatamente con i propri vicini, troppo vicini, visto che le case sono accatastate l’una sull’altra e alcune di queste non sono mai toccate dalla luce del sole. No privacy, no space, vi dice perentorio il volontario che vi sta illustrando questo quadro brutale e desolante.
Ti bastano le prime informazioni per costringerti a trattenere le lacrime. Già all’arrivo, vedendo bambini accigliati e diffidenti, ti sei resa conto che a Balata non avresti trovato la combattività in qualche modo speranzosa di Samer Issawi o dei ragazzi di Bil’in. Qui c’è solo disperazione, rabbia, rassegnazione. Nothing is changing. Eppure Balata è stata un fiore all’occhiello della resistenza palestinese, dando inizio alla Prima Intifada e giocando un ruolo chiave anche nella Seconda, azioni che ha pagato a caro, carissimo prezzo, subendo una repressione sanguinaria da parte di Israele, che ha fatto strage di 240 civili e imposto cento giorni di coprifuoco. Ibrahim, uno dei ragazzi presenti all’incontro, fu colpito da un proiettile di 85 mm e dato per morto. Dopo un mese di coma e due anni di riabilitazione, riuscì a riprendersi. Ora è sposato, sta per diventare padre ed è diventato un simbolo della struggle for life palestinese. Ma non basta. Non basta perché le nuove generazioni non si rendano conto della condanna che pesa sulle loro teste, condanna che si rinnova per la terza volta, essendo la terza generazione di profughi in Palestina. Non basta perché non realizzino l’assurdità di essere esuli nella propria terra, e non per una calamità naturale o un improvviso stato di indigenza, a renderli tale è un progetto di occupazione tacitamente supportato dall’intera comunità internazionale, la stessa che, nella persona di John Kerry, sta spadroneggiando in quei giorni nei negoziati di “pace”, proponendo di risolvere la condizione dei rifugiati mandandoli in qualche terra sperduta e disabitata del Canada o dell’Australia.
Questo – ci spiega con la voce rotta il volontario – è il peggior momento della storia della Palestina. Durante la Seconda Intifada o era vita o era morte. Ora si è in una situazione di totale stallo, che si aggrava every day, every hour, every minute: l’80% dei profughi di Balata è al di sotto della soglia di povertà; la disoccupazione è al 49% e quella giovanile supera il 70%; negli ultimi cinque anni è sparito il programma alimentare; le scuole, un tempo all’avanguardia, ora si sono guadagnate il triste primato di istituti peggiori della West Bank; la sanità non è garantita, essendo previsti due dottori e un dentista per 29 mila persone, e i medicinali si fanno sempre più radi. Per una crudele legge del contrappasso, al peggiorare della situazione è corrisposta una diminuzione dell’intervento dell’UNRWA, fiaccata dai continui tagli, dalla precarizzazione dei dipendenti, che sono entrati in sciopero, e da un’operazione di discredito da parte d’Israele, iniziata già durante la Seconda Intifada. Colpiti dal contrappasso e relegati in un inferno che sembra non avere mai fine, i giovani si ritrovano completamente disillusi, guardano ai loro genitori e ai loro nonni e realizzano di vivere nelle stesse condizioni. Non c’è possibilità di una progettualità futura, non c’è nulla, solo noia e avvilimento. Nothing is changing.
In una settimana tre persone sono state uccise, for nothing. Le dinamiche di questi litigi che finiscono in tragedia (perché mi stai guardando? Vuoi fare a botte?) ricordano tanto le vostre zuffe fuori dalle discoteche. Ma qui non si tratta di figli di papà griffati, devoti solo al consumismo e alla sopraffazione altrui e cresciuti nel mito della virilità rissaiola, per i ragazzi di Balata la vita non è niente perché non hanno niente. They forget that we are people e in quel pronome ti senti colpevolmente coinvolta. Quante volte hai ascoltato distrattamente, passando da una stanza all’altra mentre infili in fretta e furia qualcosa per uscire con i tuoi amici, il borbottio indistinto dello speaker del tg che parla di decine, centinaia di morti con la stessa glaciale indifferenza con cui dà la notizia della gravidanza della principessa Kate o delle effusioni del cagnolino Dudù al Cavaliere? Quante volte non ti sei soffermata a pensare che dietro quei numeri ci sono dei cuori fino a poco prima pulsanti, cuori che un’intera famiglia sta piangendo disperatamente? La guerra è una cosa triste, ma è ancora più triste che ci si faccia l’abitudine diceva Tiziano Terzani. Ed è ancora più triste che l’occupazione da parte di uno degli eserciti più potenti del mondo venga definita “guerra”. Ora quei numeri li hai davanti, nei volti cupi e malinconici di chi ascolta in silenzio tirando su col naso e vive o ha vissuto in una di quelle claustrofobiche unità abitative. Quei numeri hanno il suono dei risolini curiosi dei più piccoli, che vi spiano da dietro la porta, convinti forse che siate venuti a portarli in salvo. Ricacci a fatica il magone in gola, sebbene ti stia soffocando, perché se chi è protagonista di quel dramma da più di sessant’anni riesce a non sciogliersi in un pianto a dirotto non ti senti in diritto di farlo nemmeno tu, che di quel dramma sei solo spettatrice.
Ma una frase ti colpisce come un macigno: We love to have a life. I palestinesi non amano vivere, ma avere una vita. Mentre per voi l’avere indica il possesso di beni, il più delle volte non necessari, a Balata, e in generale in Palestina, l’avere coincide con l’essere. E non hanno detto una bella vita, una vita avventurosa, una vita ricca, una vita spericolata. Si accontenterebbero di avere una vita dignitosa.