L’Italia è una Repubblica fondata sulla sguattera
ottobre 1, 2013 in Approfondimenti da Sonia Trovato
“Non può essere concepito normale uno spot in cui i bambini e il papà sono seduti e la mamma serve a tavola”. È questa la frase – coincisa, chiara e più che mai condivisibile – che avrebbe condannato Laura Boldrini a un tam tam di sarcasmo, scimmiottamenti e pedanti paginoni sui maggiori quotidiani nazionali.
Ovviamente la terza carica dello Stato non intendeva dichiarare fuori legge le madri che apparecchiano la tavola, né comunicare che d’ora in avanti verranno rappresentate soltanto matriarche spaparanzate sul divano, massaggiate da energumeni oliati e muscolosi, mentre lo schiavizzato consorte deve, contemporaneamente, badare ai fornelli, calmare i figli e affrettarsi con una pila di piatti di mano al grido di “Mia signora, perdonatemi, è quasi pronto!”. La Presidente della Camera ha semplicemente accennato a un tema sul quale le femministe si esprimono da anni: non basta battersi per obiettivi concreti come la professione, i diritti civili e lo stipendio, ma bisogna risolvere “la questione dei simboli, delle immagini e delle relazioni tra generi così come vengono rappresentati nella già disprezzata cultura popolare” (Loredana Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 30).
Nel suo breve intervento a Donne e Media, Boldrini ha messo in luce che il prototipo femminile che emerge nelle pubblicità – pubblicità che martellano a qualsiasi ora e che vengono visti anche dai più piccoli, che non possono non interiorizzare i modelli proposti – è dicotomico e più che mai degradante: da una parte l’angelo del focolare, che squittisce di gioia quando trova un detersivo portentoso; dall’altra la femme fatale, discinta, provocante e allusiva. Dicotomia in cui, ahimè, è caduto anche Woody Allen nella sua ultima, orrenda, pellicola To Rome with Love, dove le donne italiane si dividono tra chignon e grembiulino inamidato o tacco dodici e minigonna.
“Laura Boldrini non capisce bene che ruolo svolge la donna nella pubblicità. È madre, nonna, amante, cura la casa, cura le persone, oppure fa altri gesti e attività che comunque ne nobilitano il ruolo. È una fondamentale persona per la pubblicità, non solo italiana. In tutti i Paesi del mondo la donna è estremamente usata”, afferma perentorio Guido Barilla nella recente intervista a La Zanzara, della quale sono stati ripresi e giustamente criticati soltanto i passaggi contro le famiglie omosessuali. Madre, nonna, amante. Se l’imprenditore avesse messo piede ogni tanto nelle sue fabbriche, avrebbe visto che la pasta che l’ha reso milionario viene confezionata anche da donne che terminano il turno distrutte, con le occhiaie e il trucco sfatto e che, rientrate a casa, sono costrette al doppio lavoro, mentre il marito sonnecchia in salotto con il telecomando sulla pancia. Oppure ci sono le madri single, che devono pagare una baby sitter, sperare nella disponibilità dei nonni o incrociare le dita perché i bambini vengano presi al nido o riescano a entrare in una scuola a tempo pieno, e magari devono pure sopportare il peso di sentirsi cattivi genitori perché non corrispondono alla madre angelicata dei suoi spot, tirata e lucido e festante nello sfornare manicaretti per la prole.
“Nazi-femminista e fautrice di una dittatura femminista” è definita la titolare di Montecitorio da un sito che si chiama – e si commenta da solo – questionemaschile.org. La famosa dittatura femminista che vede l’occupazione femminile dello Stivale arrancare sotto il 50% (12 punti in meno della media europea), che costringe le donne alla becera pratica delle dimissioni in bianco in caso di gravidanza e che ne include solo il 4% nei cda di aziende e società. Questo per le donne che non rientrano nelle oltre 120 mediamente (e barbaramente) assassinate ogni anno, da ex compagni che non accettano di non possedere un certificato di proprietà della persona con cui stavano e che ha deciso di piantarli.
A commentare l’intervento della Presidente anche il tuttologo Andrea Scanzi, che su facebook scrive: “In effetti è un problema davvero gravoso per le sorti del paese. Personalmente non ci dormivo la notte. […]. Ogni volta che c’è da banalizzare il femminismo, rendendolo caricaturale e anacronistico, tra lotte patetiche a Miss italia e appelli retorici contro il machismo mediatico, la Preside Permalosa Boldrini non manca mai”.
Al giornalista del Fatto Quotidiano si potrebbe obbiettare che a banalizzare la sua professione ci pensano le sue foto in pose da bimbominkia, nonché il suo perenne intasamento del tubo catodico, tale da far pensare che passi più tempo a ingellarsi il ciuffo che dietro una scrivania a scrivere. In attesa comunque di sintonizzare l’agenda politica italiana sull’insonnia di Scanzi, gli facciamo notare che è tipico dei tempi di crisi negoziare i diritti civili con una pagnotta, come se la drammatica congiuntura economica impedisse di riflettere su qualunque argomento non rientri nel pareggio di bilancio o nello spread, senza risultare irriguardosi verso i disoccupati.
Un’altra frase-tormentone che impazza sul web è “Non tutti hanno la colf come lei” (Laura Boldrini, ndr). Ai maschietti che ne hanno dato sfoggio – maschietti che palesano un grande rispetto per le proprie mogli o compagne, equiparate a cameriere, – comunichiamo una scoperta sconvolgente: tutti i primati hanno le mani prensili, e grazie al pollice opponibile possono maneggiare quegli oggetti in ceramica dai quali, sin dall’infanzia, trangugiano i loro pasti e riporli su quel mobile costituito da un piano orizzontale, sostenuto da gambe o supporti. Provare per credere!
Peggio però degli uomini che strepitano contro l’ex portavoce dell’Unchr sono le donne, che ricordano tanto il personaggio interpretato da Samuel Jackson in Django unchained di Tarantino, schiavo nero spietato verso i propri connazionali e più che mai ossequioso nei confronti del suo aguzzino, il terribile negriero interpretato da Di Caprio. Giorni fa, sul blog di Beppe Grillo si potevano leggere cose come questa: “Ha presente il piacere che può provare una madre – mi perdoni se mi permetto di utilizzare un termine così obsoleto – dopo una giornata di duro lavoro a preparare una cena per suo marito e i loro figli, servirli a tavola e trascorrere con loro probabilmente l’unico momento della giornata davvero in famiglia?”. Lorella Zanardo, su Donne di Fatto, ha sottolineato come la scelta del verbo “servire” riporti “indietro di 50 anni. Pare scritto dai benpensanti conservatori di 50 anni fa. E se lo avessero scritto quelli della Militia Christi ci sarebbe una sommossa popolare. Lo stile è quello”.
Alla commentatrice del blog del leader 5 stelle fa eco un trafiletto apparso sulla Stampa, opera della sionista Elena Loewenthal: “Quello della madre che serve a tavola la sua famiglia, additato dal presidente della Camera Laura Boldrini, non è uno stereotipo, un emblema di sfruttamento e mortificazione. È una realtà, tal qual viene rappresentata, immaginata, aspettata. E non è necessariamente un atto di sottomissione, di servilismo – anche se di servire si tratta. Perché cucinare per le persone cui vuoi bene è un atto d’amore”.
La miglior riflessione l’ha però proposta la militante cattolica Giulia Tanel: “Le donne trovano la loro piena realizzazione nell’accogliere, nell’ascoltare, nell’amare, nel servire, nel sacrificarsi per il bene dell’altro”.
Toh, pensare che noi (e con il noi non mi riferisco alle fantomatiche lobbies femministe di cui millanta l’Avvenire, ma alle mie coetanee che hanno avuto la fortuna di studiare e di dotarsi di un minimo senso critico) ci siamo laureate perché ci illudevamo che la piena realizzazione fosse, dopo più di duemila anni di storia occidentale fatta e raccontata da uomini, costruirsi un bagaglio di conoscenze, maturare una consapevolezza di sé e del proprio sesso non dogmatica né precostituita, aspirare all’indipendenza economica, emanciparci dal cliché della femminuccia piangente che scrive lettere d’amore profumate aspettando il principe azzurro.
A queste serve contente di essere serve, assicuriamo che nessuno toglierà loro il piacere di massaggiare i piedi maleodoranti del proprio marito dopo una giornata di lavoro, ma che ci lascino almeno il diritto di non considerarci delle fallite se non diventeremo, per riprendere le illuminanti parole di Barilla, madri, nonne, amanti. Non abbiamo mai inteso sminuire l’esperienza della maternità o l’immensa gioia di donare la vita, ma vorremmo non venire considerate alla stregua di animali da stalla o di macchine programmate solo per la riproduzione. Ci piacerebbe che la Stanza tutta per sé, presupposto indicato da Virginia Woolf per l’emancipazione femminile, non fosse necessariamente la cucina, o la camera da letto, o il ripostiglio dei detersivi e del ferro da stiro, ma un luogo dove ci sia consentito esprimerci e gratificarci parimenti ai nostri amici di sesso maschile. Vorremmo, ancora, che l’espressione “donna da sposare” venisse bandita dal vocabolario, o che almeno si riferisse a una donna con la quale ci si vorrebbe legare per la vita non in virtù delle sue abilità domestiche, ma della sua intelligenza, della sua capacità, in un futuro più o meno prossimo, di trasmettere ai figli valori come l’empatia o il rispetto e la curiosità per gli altri e per l’ambiente. Perché se, come titola sobriamente l’UCCR (Unione Cristiani Cattolici Razionali), “Laura Boldrini umilia le donne italiane”, dove le donne in questo caso sono le madri e mogli iperapprensive che pensano che gli uomini di casa non siano in grado di farsi un uovo al tegamino, io, e come me tante credo, mi sento umiliata da una cultura che ritiene che la mia massima aspirazione debba essere saper girare una frittata senza romperla.