“L’incompleto conoscersi”
febbraio 3, 2015 in Recensioni da Laura Giuffredi
Un romanzo di formazione, quest’ultimo, di Carlo Simoni, L’incompleto conoscersi (ed. Secondorizzonte, Cierre Verona), ed una storia famigliare, narrata con la finezza d’altri tempi, in una prosa misurata, con una ricerca lessicale puntigliosa.
La storia della famiglia Pucci, che si trasferisce da Pescia a Riva del Garda, dopo che il padre Amatore è stato assunto nella locale cartiera.
La domenica, al caffè, si legge il giornale e si beve un goccio di vermut, guardandosi intorno. Ad accompagnare il padre ci sono i due figli, Michelangelo e Adelino, tanto diversi quanto lontani nella vita che gli si prepara.
E Adelino cresce e osserva; e nell’osservare con attenzione il lento mondo che lo circonda si sforza di comprendere.
Comprendere suo padre, nei suoi rituali, nei suoi silenzi, e nel sobrio commiato consumato in un’unica carezza.
Comprendere la madre poi suicida, chiusa nella sua disperazione e nel rimpianto per quella bambina appena nata e subito morta.
Comprendere, più in generale, le donne, talvolta candide, come l’innamorata coetanea Aurora, o seducenti, come la matura Agnes.
Comprendere, soprattutto, l’importanza di uno sguardo, quello che Thomas Mann, incredibilmente, rivolge a lui bambino, in quella Riva del Garda ancora austriaca dove lo scrittore col fratello Heinrich ama trascorrere periodi di riposo e cura.
(…) d’un tratto…lui si girò, mi guardò, ma non negli occhi: mi sembrò che guardasse solo il mio vestito. Il mio vestito alla marinara. Con un sorriso, tuttavia, che prima non gli avevo visto.
Tra Adelino e il giovane Tadzio de La morte a Venezia c’è dunque una non casuale somiglianza? Sono solo coincidenze quelle che rendono così simili il protagonista ed il personaggio di Mann? Poco importa. Ma intanto il nostro bambino vagheggerà di diventare scrittore.
E più tardi, da giovane tecnico presso il Sanatorium del dott. Von Hartunghen, anche per via delle conversazioni con frau Ariadne, un’ospite viennese della struttura, non potrà non ricordare quel romanzo: Nulla di più singolare, di più scabroso, che il rapporto tra persone che si conoscono solo attraverso lo sguardo: ogni giorno, ogni ora s’incontrano, si osservano e nello stesso tempo, costrette per civiltà o bizzarria personale a insistere nella finzione, serbano un contegno indifferente e staccato, non si salutano né scambiano parola. Tra loro si forma un fluido d’inquietudine e di curiosità esacerbata, un isterico bisogno, inappagato o innaturalmente represso, di conoscenza e di scambio e soprattutto, infine, una sorta di ansioso riguardo: poiché l’uomo ama l’uomo e lo onora finché non è in grado di giudicarlo, e dall’incompleto conoscersi nasce il desiderio.
L’intricato percorso attraverso il quale Adelino, da operaio di cartiera mancato, giungerà a diventare neurologo, passa attraverso la riflessione su quell’episodio apparentemente insignificante, proseguita con pazienza, nell’osservazione e nell’ascolto degli altri, per cercare le risposte alle tante domande di senso che la vita sottopone alla sua intelligenza.
Un intreccio, dunque, che ha il suo “input” nel precoce contatto col grande scrittore.
In quest’ottica si spiega anche l’interesse del ragazzo per la psicoanalisi e per quanto questa nuova disciplina comincia a rivelare dei complessi meccanismi della mente umana, dove, come gli sottolinea il prof. Ancona, compagno di lunghe passeggiate, “l’io non è padrone in casa propria”.
Sta in questo la spiegazione del cieco terrore che si impossessava della madre di Adelino davanti al fragore delle Cascate del Varone, quelle che lo stesso Mann definì “insensate” nel loro violento precipitare? Forse sì.
Ma nella sua maturazione il giovane imparerà ad uscire dall’antico senso di colpa dovuto alla convinzione di essere stato lui, agli occhi della madre, come Vincent Van Gogh, l’“usurpatore di una culla non sua”, quella della piccola sorellina Adele, morta prima della sua nascita. Non rimarrà prigioniero del rimorso, ma spiccherà il volo e, a differenza della madre, deciderà di con-siderare, non di de-siderare: l’etimologia è rivelatrice e suggerisce ad Adelino non la via della disperazione, ma quella della speranza.