L’epica della supplente Viola
febbraio 16, 2019 in Recensioni da Mario Baldoli
Ogni epoca ha la sua epica. L’epica del nostro tempo inizia con l’Ulisse di Joyce, un individuo mediocre che gira Dublino, piccoli affari e pensieri sconnessi, mentre a casa la moglie, nuova penelope, si perde in una frotta di ricordi erotici.
Epico (cioè il racconto di imprese leggendarie) è il libro di Beatrice Viola, Avventure tragicomiche di una supplente, Illustrazioni di Biro, ed. HarperCollins, ed è l’epica del presente. Nello specifico, quella della scuola.
La protagonista è una giovane donna laureata con un curriculum esagerato: laurea alla Sorbona, insegnamento agli stranieri in Francia, iscritta all’Ordine dei giornalisti, titoli e studi inutili per lei e per la nostra scuola.
In Italia la sua vita si snoda guidata dalla locuzione fino ad avente diritto.
Diritto oscuro che la getta inizialmente in una terrificante scuola professionale regionale di – lei celia- h’aspiranti mekkanici che provengono quasi tutti da varie regioni dell’Africa e dal Pakistan. Il loro italiano è fuori scala: inchilàt è la parola d’ordine (si noti lo slang bresciano) infrattata in gioiellini: Fatti i fatti tuoi, inchilà, zingaro di figa ti i lavi denti col fango tu, complimenti su madri, sorelle e zone di provenienza (la litote si spreca), cui va aggiunto che la supplente oltre che giovane ha il difetto di essere bellissima. Se alza la voce, c’è chi la richiama a non sclerare o l’invito: profe camomillati. O il più ambiguo: Io l’amo, come la mettiamo?
Beatrice Viola scrive alla terza persona, ma è tanto personale nel racconto, immediata e spontanea in una lingua che è quella parlata, nello stile secco e compatto da far capire che la terza persona è l’’io” di una donna forte, simpatica e che ama sorridere. Non piange mai su se stessa, colpisce con ironia affilata, raramente sarcastica dato che non è nemmeno il caso, del resto l’epica non è un romanzo.
Ne esce un quadro di Bosch, una nave dei folli che è la banalità del quotidiano. Ogni giorno lei si rilancia, magari dopo lo sfogo sul paziente compagno; è grata alla titolare che è rimasta incinta ed è tornata in Sicilia, grata alla maternità come esperienza, alla Sicilia intera, al ministero e, siccome è pure ingenua, pensa di avere un buono stipendio, anche se le vacanze non sono pagate e trascorrono con la gastrite.
Dopo gli h’asp mekk, viene spinta per un breve periodo in una scuola media ai margini delle nevi perenni cui si arriva da Brescia in un’ora superando decine di tornanti. Impara così usi e costumi dei fanciulli alpini, usi marcati lessicalmente dal pota, il grazioso intercalare bresciano.
Sull’orlo della perdita d’identità, la supplente si rivolge all’Inps per il sussidio di disoccupazione. L’acronimo Inps le si svela attraverso decine di sensi, da Istituto nazionale poco seri, a Istituto nazionale pollastri stipendiati. Nel nazionale Istituto la supplente inciampa in quella che in fisica è la costante variabile che in termini volgari è detta burocrazia.
Gli impiegati dell’Istituto nazionale perigli e scompiglio, una volta arduamente raggiunti (sono abilmente astuti a frapporre ostacoli), danno risposte sempre diverse: c’è chi vuole tutti i certificati arretrati possibili, chi snobba: “non servono a niente, li getti pure via”, chi lamenta che il computer è troppo lento quindi confonde le persone. I soldi non arrivano, mentre quando la domanda è accettata, arriva una supplenza.
La supplente, tra conflitti consci e inconsci vi si butta e si trova tra ragionieri gentili e silenziosi, dove le pare di giocare a squash, impossibile agganciarli in maniera sensata. Ma ecco che si svegliano alla lettura di un racconto di Leonardo, quando un’ostrica bella grande, di polpa sostanziosa, rovesciata a terra, chiede al topo di riportarla in mare. Il topo, pronto a mangiarsela le chiede di aprirsi “perché non posso trasportarti così chiusa”. La supplente non capisce perché gli studenti ridono. Capisce quando l’ostrica si schiude con cautela e il topo ci ficca dentro il muso, non importa che un gatto se lo mangi: e bravo Leonardo che ci tiene allegri interrompendo lo squash.
Altro capitolo sono i consigli di classe che svelano la sistematica vacuità del professore che giudica lo studente. Siamo “al limite”, che si può interpretare come all’imite e del riformatore L’utero. Così almeno le fugge l’ora diabolica del consiglio di classe in cui si viene a sapere: dov’è andata in viaggio di nozze la figlia del bidello? O la foggia delle scarpe di M.
Necessarie forme di docente difesa da tutto, compreso il verbale dove è meglio scrivere: “la classe mostra un impegno fattibile ma non sempre appezzabile?” Oppure, come interviene un autorevole attento:” impegno fattivo ma tuttavia incostante?” Il dibattito alza il tono: meglio “la classe si staglia?” No “Meglio si sedimenta nel solco di una tradizione” oppure “procede nella sua cavalcata?” Improvvisamente un profe conta: “Ma non c’è il numero legale”. Tanto il verbale non lo leggerà nessuno.
La supplente si impegna ferocemente in ogni scuola: il suo impegno sociale, il suo pensiero sono volti a fare quello che ritiene il suo dovere: lavorare per la società, sia di meccanici che di ragionieri, anche se evidentemente è più sensibile verso chi ne ha più bisogno, gl’immigrati.
Tale impegno sociale (masochistico?) fa sì che lei partecipi anche alle gite scolastiche; memorabile quella degli h’asp mekk a Verona dove improvvisano una partita di calcio al Verona Fiere, “la porta naturalmente è la vetrata d’ingresso”, o si appendono alle tette di Giulietta, “inutile dire che la scultura adesso è in restauro”.
Da quegli anni, la supplente fa emergere i ricordi positivi (si autodifende?), la sincera commovente delusione degli studenti quando la sua supplenza finisce e se ne deve andare, l’umanità degli h’asp mekk, con i loro problemi e risorse: la tesina sul cellulare, o nessuna tesina, l’orgoglio africano dei “fratelli negri”, quando ha spiegato un’intera novella di Verga senza interruzioni, gli ululati con cui è stata accolta avendo cambiato pettinatura. Tanti ricordi in una valigia leggera,\ “il sapore di un sorriso”: