Le nostre città d’America: le generazioni disperse
agosto 26, 2016 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Un’insolita ricerca quella del giornalista Alberto Giuffrè, Un’altra America. Viaggio nelle città “italiane” degli Stati Uniti, ed. Marsilio.
Si sa che decine di città americane hanno il nome di città italiane, quindi probabilmente furono fondate da immigrati italiani. Che ne è di queste città? E dei discendenti che le fondarono?
Giuffrè ne ha scelte otto, partendo dall’importanza del nome e dall’appartenenza a Stati diversi. Ha così compiuto un lungo viaggio dalla California alla Florida al confine col Canada: Rome, Venice, Palermo, Florence, Genoa, Naples, Milan, Verona.
In comune questi paesi hanno di essere villaggi di scarso peso o di essere divenuti quartieri ai margini di grandi città, di non sapere chi li ha così battezzati, di aver dato la nascita a qualche uomo illustre o averlo ospitato in una parte della sua vita, di avere abitanti italiani che non conoscono più la vecchia lingua e non hanno memoria del luogo d’origine.
Milan (Ohio) nel secolo scorso era il secondo porto di grano al mondo, dopo Odessa. Ora è un villaggio (la mobilità americana) che, chissà per quale inconscia suggestione nostrana, ha il Culinary Vegetable Institute, un mega orto dove crescono centinaia di verdure (8 varietà di broccoli, 88 di pomodori, tanto per citare) e riceve la visita dei meglio cuochi. Al Culinary assicurano che quello dell’americano obeso è uno stereotipo, che dappertutto crescono fattorie dove si impara che la mela non viene dal negozio, ma da un albero. E nemmeno il panino lo produce McDonald’s. Lì un certo Jim, originario della provincia di Frosinone, a cui i genitori vietarono di imparare l’italiano (l’ingrata terra), strappò, con pragmatismo tutto americano, alla madre morente il segreto della salsa piccante da spalmare sulla pizza. Lì nacque Thomas Edison, colui che ci portato alla conquista della notte. Un suo discendente che vi gestisce un piccolo museo ricorda: Quando stava lavorando alla pila alcalina gli hanno chiesto: Hai fallito 10.000 volte, quando smetterai? La sua risposta: non ho fallito 10.000 volte, conosco 10.000 modi che non funzionano. Qualcosa funzionerà e io lo capirò.
Di Venice (California) scriveva Arbasino a fine anni Cinquanta: abbandonata, decrepita, deserta, fuori da tutte le strade, ci si capita solo per caso o perdendosi. Oggi Venice è “l’isolato più figo d’America”, secondo la rivista “CQ”. È la Silicon Beach dove aprono uffici le multinazionali della tecnologia. Anche qui gli italiani sono scomparsi, ce n’è uno che lavora in un’azienda (italiana) per la riforestazione di varie parti del mondo. E c’è la Gold’s Gym dove si è formato il bicipite di Schwarzenegger.
A Naples (Florida) ecco coppie di italiani ricchi, a 50 anni già in vacanza o, come usa dire in Usa, felici. Scriveva Piovene: un enorme numero di villette, tutte con giardino fiorito, di gente che si è procurata, in anni di lavoro duro, una piccola rendita mediante le assicurazioni. L’americano poi ha la facoltà di mettersi in vacanza con tutto l’essere, buttando via da un giorno all’altro i pensieri. Così nei primi anni Cinquanta, quando gli Stati Uniti erano in espansione. Oggi che la classe media si assottiglia e il numero dei poveri è esploso, forse la musica è cambiata.
I pregiudizi sull’italiano mafioso sono lunghi a morire. A Verona (New Jersey) presero le comparse per Il Padrino, ma – assicurano gli ex italiani del posto – la mafia qui non c’è perché Don’t shit where you eat, non si caga dove si mangia. Il che nel complesso è vero.
Frammenti di Italia e di America, un confronto di mentalità e di costume, un gioco apparentemente lieve e curioso attraverso migliaia di chilometri per raggiungere luoghi semiabbandonati, in realtà la testimonianza di un’immigrazione senza confini, di generazioni in fuga dalla miseria, dell’eterno affannarsi, chiudersi e tornare di milioni di vite.