Le cento lettere di Paolina Leopardi
ottobre 19, 2019 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Quando finalmente la contessa Adelaide Antici morì, la figlia Paolina aveva ormai 57 anni, magra, bassa di statura, precocente invecchiata, una malattia ai polmoni.
Giacomo l’aveva definita “erudita Signorina”, ma nella sua vita Paolina si era limitata a traduzioni dal francese, qualche scritto sulle riviste reazionarie del padre e libri ormai scomparsi. Una sua traduzione fu, non a caso, l’ Expedition nocturne autour de ma chambre di De Maistre, pubblicata nel 1832 e ripubblicata da Elisabetta Benucci, Paolina Leopardi. Viaggio notturno intorno alla mia camera, Osanna 2000.
Paolina fu una donna profondamente infelice. Nata all’incirca settimina, commentava: mi affrettai tosto di uscire per godere di questo bel mondo, di cui ora mi affretterei di uscire se potessi.
In altra occasione ricorda come la tristezza e il disseccarsi in me le sorgenti dell’allegrezza e della vivacità siano imputabili al borgo selvaggio e all’autoritarismo della madre.
Morta la quale, Paolina potè abbandonare l’odiata Recanati (dove in chiesa non si sente che scatarrare) e, pur in ristrettezze economiche, viaggiare. Non fu un grand tour come quelli di moda all’epoca, furono viaggi che ripercorrevano i luoghi dove il fratello Giacomo si era fermato o aveva abitato e dove lei incontrò tanti ammiratori del poeta. Scrive alla cognata: Sappi che io sto bene e mi diverto; trovo amici per ogni dove, amici oscuri (…) quelli che sentono il mio nome mi si avventano per offrirmi servigi. Ma è proprio vero? Proprio quella che Giacomo nominava la Pilla? tutti a chiederle se era davvero la sorella di Giacomo, e lei che si faceva distinguere (con un filo di civetteria?) dalla somiglianza del volto.
Le tappe di Paolina furono Pisa, Firenze, Napoli, Roma, Ancona, di nuovo Pisa da dove stava per tornare a Recanati, ma dove morì, forse di pleurite: aveva 69 anni, era il 1869, 150 anni fa.
A Napoli visita la tomba del fratello: Povero Giacomo! Si sarà avveduto forse che la sua Paolina è stata a piangere vicino alle sue ceneri! piangere e pregare…
Per tutta la vita aveva coltivato, per rompere la solitudine, un folto epistolario che è il suo ritratto: Mi pare di essere divenuta un cadavere, e che mi rimanga solo l’anima, anch’essa mezza morta, perché priva di sensazioni di qualunque sorta.
Il suo sostegno umano restano sempre le lettere, quelle 119 inviate dal viaggio a Teresa Teja, moglie del fratello Carlo, una donna di 26 anni più giovane di lei. Teresa aveva molto viaggiato col precedente marito, poteva quindi scambiare con lei osservazioni su paesi, abitudini, botteghe, mode, pulizia, rumore e farle conoscere persone in grado di guidarla nella visita di chiese e palazzi.
L’epistolario, proveniente dall’Archivio di Stato di Reggio Emilia, è stato ora raccolto e pubblicato dall’editrice Olschki, Lettere di Paolina Leopardi a Teresa Teja dai viaggi in Italia, 1859-1869, a cura di Lorenzo Abbate e Laura Melosi, con l’introduzione di Gloria Manghetti, direttore del Gabinetto Viesseux, nella collana Studi, il progetto editoriale della cattedra Giacomo Leopardi dell’Università di Macerata.
A Firenze, il luogo dove Giacomo soggiornò più a lungo si tenne nel 1998 un grande convegno su Leopardi a Firenze. Il carteggio Viesseux e gli amici di Toscana, i cui atti, curati da Laura Melosi, furono pure editi da Olschki.
Il Gabinetto Vieusseux a Firenze fu un punto di riferimento per Giacomo Leopardi: i due uomini si conobbero e mantennero una corrispondenza epistolare trovandosi uniti, pur tanto diversi, nell’idea di promuovere il progresso morale d’Italia di fronte ai problemi del momento.
Quasi tutti i giorni Paolina scriveva alla cognata con grande affetto, Carinella cara, e si lamentava con lei, con le poste e le ferrovie quando non riceveva una rapida risposta.
Tra le lettere, in cui si parla di moda, teatro, caratteristiche della città, spicca quella a Pisa con un pasticcere che le porta in albergo alcune torte da lei ordinate (dolci e gelati piacevano non solo a Giacomo). Il pasticcere le dice che sua moglie “non avea dimenticato mai di avere nella sua gioventù conversato e avuto in casa il conte Giacomo Leopardi, e avendole esso detto che una recanatese era venuta nel suo negozio pensò che potesse essere una di lui parente. Così continua la lettera a Teresa: Essa (la moglie del pasticcere) è venuta da me, era allora ragazzina di 10 anni e racconta bene la vita di Giacomo e come assai sovente stesse discorrendo con le donne di casa, che tutti i letterati gli facevano visita e lo stimavano immensamente e non finisce mai di parlare della sua bontà e del suo angelico carattere”. Conclude osservando che le aveva dato una mancia.
Sono varie le prospettive con cui si legge un’opera: la scrittura femminile (di donne non certo comuni), l’attenzione alla moda: mantiglioni, crinoline, polonaises, chignon, la timidezza via via superata, la sensibilità non comune, le difficoltà della malattia per cui deve trovare in albergo (ed è difficile) sempre una stanza a piano terreno.
Io ho trovato nelle sue lettere soprattutto una donna ingenua, spesso insofferente (certo per l’età e la malattia), mi hanno colpito l’ignoranza (o la rimozione della politica), la sua sorpresa di fronte a insignificanti dettagli, il desiderio folle di essere finalmente amata, amata da se stessa, dalla sua interlocutrice, dalle persone che incontra.
Un limite consiste nel fatto che le lettere furono ricopiate da Teresa Teja e, prima di darle alla stampa, censurate nelle parti più intime, come lei stessa scrive. Verosimilmente si tratta di faccende familiari che non avrebbero aumentato la nostra conoscenza di Paolina. Il libro si rivela quindi un ulteriore tessera nella ricostruzione dell’ambiente familiare leopardiano. Se la contessa Adelaide fu dura con i figli che tuttavia scelsero una loro strada, Paolina fu la vittima più sacrificata proprio perché donna.