La risposta che aspetto: perché la Guerra?
agosto 8, 2024 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Ora che i circa 70 anni di pace in Europa (ma non dimentichiamo le guerre dei Balcani, 1991-2001) sono finiti, credo sia utile, prima di arrivare all’oggi, affrontare il tema perché la guerra, cominciando da chi studiò le cause di quelle moderne dagli anni Trenta del Novecento.
Inizierei da due piccoli libri parzialmente inediti di George Orwell, l’uomo dai mille mestieri, volontario nella guerra civile spagnola, l’anarchico che più di tutti ha letto il futuro come un libro aperto: Sul nazionalismo e Fascismo e democrazia, trad. Davide P. Ferrero, ed. Lindau.
Il primo libro è composto da cinque interventi datati 1940-1942, quindi nel pieno della guerra mondiale e raccoglie articoli su giornali, una trasmissione alla BBC, la recensione della fantasia radiofonica di Orson Wells, L’invasione da Marte.
Mi soffermo sull’ultimo dei capitoli: Visione di un futuro totalitario dove Orwell anticipa alcuni concetti fondamentali del suo libro più celebre 1984, quando afferma che il totalitarismo controlla il futuro perchè è padrone del passato di cui modifica continuamente i fatti fino a togliere il concetto di libertà oggettiva, annullare la scienza riducendola a scienza tedesca, ebraica e così via. Se il Capo dice che quel determinato evento non è mai avvenuto, be’, non è mai avvenuto. Se dice che 2+2 fa 5, be’ 2+2 fa 5.
Non siamo ancora al Grande Fratello e al suo meticoloso e feroce dominio, ma la preoccupazione di trovarcelo in casa è ovvia, rimane universale e immortale. Noi crediamo che il bene trionfi sempre, ma non ne abbiamo prove, crediamo che il male si autodistruggerà, e perché, nota Orwell, dovrebbe autodistruggersi? Perché non dovrebbe tornare? Per esempio, la schiavitù è tornata nei campi di lavoro sparsi in tutta Europa e nord Africa, manca solo la tratta degli schiavi, osserva.
Già ora è il momento di aggiornare Orwell: la tratta è tornata. Come in passato molte persone muoiono in mare, chi sopravvive ha un futuro più incerto degli schiavi romani o americani sui quali si è sempre appoggiata la nostra ricchezza. In passato gli schiavi erano prigionieri di guerra (o di debiti), comprati e venduti. A Roma nutriti (appena) a sufficienza affinché potessero lavorare (Catone), ora respinti anche se ci servono, dai lavori agricola alla propaganda politica.
Sul trattamento degli schiavi (marchiati e frustati) in America ha scritto Dickens, per il mondo greco Aristotele: “Gli uomini sono liberi o schiavi per diritto di natura: la cosa è evidente”. Per quello romano, ma ormai nel periodo delI’Impero quando gli schiavi, diminuiti di numero, erano preziosi, troviamo finalmente della pietà in Seneca, Epistola 44 a Lucilio.
Tuttavia vorrei chiedere a Orwell: il bene che facciamo, da qualche parte rimane?
L’altro libretto di Orwell, Sul nazionalismo è un breve saggio del 1945. Orwell usa il termine in un ampio significato, vi include movimenti e tendenze: il comunismo, il trockismo, il cattolicesimo politico, il pacifismo, il fascismo, il sionismo. Le caratteristiche del nazionalista sono comuni. Pensa esclusivamente – e principalmente – in termini di prestigio competitivo. Si convince che la propria parte è la più forte e la più giusta, anche se la realtà gli dà torto. Chi amava l’Urss trovava opportuno anche il patto con Hitler per la spartizione della Polonia. Secondo il pregiudizio del nazionalista, la propria parte non governa per amore o in nome dell’umanità: al nazionalista non interessa il bene degli altri; interessa il potere e niente di più”. Rimane il problema del perché si uccidano milioni di persone, perché si provi piacere nel saperle torturate e umiliate, sentirle colpevoli anche se si sanno innocenti. Il nazionalista vive in un mondo di fantasia, cambia le date, estrapola le citazioni, trova ovunque tanti buoni motivi per restare convinto.
Orwell prevede anche il nazionalismo delle “piccole patrie” come il Galles e la Scozia che glorificano il valore degli antenati Celti, come gli ebrei orgogliosi della loro verità sancita dall’antica tradizione. Un ottimo libro, ma di cui trovo moralistica la conclusione: compito dell’intelligenza è resistere all’odio e alle passioni con uno sforzo morale e riconoscere i nostri pregiudizi. Idea giusta, ma impresa impossibile.
Altro piccolo libro fondamentale è Perché la guerra, di Einstein e Freud, appassionante il primo, banale il secondo.
Ora pubblicato, prossimamente tradotto in italiano, Why War? p. 288, Norton & Company di Richard Overy, il maggior studioso al mondo della Seconda guerra mondiale e dintorni (v. Wikipedia). Il saggio analizza prima la formazione dell’uomo dalla sua apparizione sulla terra, quindi sotto l’aspetto della biologia, psicologia, antropologia, ciò che l’origine ci ha impresso, poi i motivi per cui si fa la guerra, dalla volontà di dominio e di potenza al desiderio di sicurezza. La sintesi più completa oggi esistente sull’argomento in quanto attraversa tutti gli studi sul tema.
Quanto alle guerre in cui è entrato il nostro secolo, il numero di libri pubblicati è già incalcolabile, a cominciare dai molti di Noam Chomsky a quello più venduto di Travaglio, a quelli di Mini, Cardini, Basile, Orsini, poi due autori di origini ebraiche Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina e Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese.
Due riviste offrono prospettive stimolanti e contrarie: “Limes” di Lucio Caracciolo e “Aspenia” un think tank Usa, diretto da Lucia Annunziata.
Gino Strada chiedeva di mettere fuori legge la guerra; Virginia Woolf ha messo sotto accusa le pretese e l’arroganza maschile in Tre ghinee; Primo Levi mi disse in un’intervista di aver pensato ingenuamente che i laureati in materie scientifiche avrebbero dovuto fare una sorta di giuramento di Ippocrate.
Per rispondere alla domanda del titolo, io noto che il primo libro di cui sappiamo in Europa è l’Iliade ed è dedicato alla guerra, tranne due brevi commoventi episodi; il secondo, il più bel romanzo mai scritto è l’Odissea che è avventura e guerra insieme. La loro incerta origine li colloca intorno all’VIII secolo, ma per non finire in un bagno di lacrime, andiamo a teatro, fanno la Lisistrata di Aristofane.