La grande (e lunga e pretenziosa) Bellezza di Paolo Sorrentino
giugno 22, 2013 in Cinema da Sonia Trovato
Sono passati cinquantatré anni da quando la Roma corrotta e decadente di Fellini sfilò sul tappeto rosso della Croisette, conquistando la Palma d’oro e scandalizzando i benpensanti nostrani. All’ultimo festival di Cannes è stata vista (e apprezzata) una Roma altrettanto dissoluta e malinconica, trasfigurata dall’inconfondibile tocco virtuosistico e un po’ barocco della cinepresa di Paolo Sorrentino.
Ne La grande bellezza il regista napoletano affida a Jep Gambardella (Toni Servillo), uno scrittore prestato al giornalismo che non può non ricordare il cinico e disilluso Marcello della Dolce Vita, il compito di guidarci nella mondanità fracassona della capitale, mondanità dalla quale l’uomo si sente contemporaneamente attratto e respinto. Jep è il “re dei mondani”, è un nottambulo bulimico ma allo stesso tempo un critico feroce della vacuità di un’esistenza spesa a sculettare facendo trenini che non vanno da nessuna parte. È autore di un solo romanzo, perché se nemmeno Flaubert è riuscito a scrivere un libro sul niente, lui, convinto di assistere a un’irrimediabile mutazione antropologica che ha smarrito il culto della Bellezza, si è rassegnato a posare il calamaio in un cassetto e a vivacchiare nell’inferno romano.
L’attempato viveur non è, però, l’unico dannato sul quale indugia l’occhio del regista: c’è Romano (Carlo Verdone), uno scrittore teatrale dalla carriera incerta e inconcludente, il quale decide di lasciare la città capitolina quando ormai questa gli ha risucchiato tutta la linfa vitale; Ramona (Sabrina Ferilli), spogliarellista quarantenne nella quale Jep ritrova una traccia della propria abulia e del proprio spleen; Orietta (Isabella Ferrari), affascinante milanese che appaga il proprio narcisismo (ed esorcizza l’inevitabile terrore dell’appassimento) posando senza veli per il pubblico di facebook; Lorena, mastodontica donnona che ha il volto di Serena Grandi, la quale, parodiando quasi se stessa, interpreta un’attrice fallita e ormai sformata dall’età, che trova rifugio nella cocaina e nei lustrini; Stefania (Galatea Ranzi), emblema dell’intellettuale engagé e radical chic, incapace di analizzare con onestà le proprie doti letterarie e le proprie miserie familiari, e il consorte Lello Cava (Carlo Buccirosso, il Cirino Pomicino del Divo), un istrionico commerciante che incarna alla perfezione la rozzezza e la famelica ambizione della borghesia arricchita; il cardinale Bellucci (Roberto Herlitzka), che, con la sua ossessione per la buona cucina, è simbolo dell’opulenza clericale; infine la Santa (Giusi Merli), rappresentante di una religiosità ancora vicina al messaggio cristiano e personaggio al quale Sorrentino sembra voler affidare il ruolo di contrappunto limpido e teleologico al mondo cafone e inetto della dolce vita del ventunesimo secolo.
Come This must be the place, La Grande Bellezza è un film fastidiosamente compiaciuto, che dietro ai 142 interminabili minuti di piani sequenza e scene patinate rivela una trama disorganica e poco avvincente, uno scarsissimo scavo psicologico e un umorismo posticcio. Se la creatività di Jep si è persa in fiumi di champagne e canzoni dance, quella di Sorrentino sembra essersi dissolta in un manierismo fine a se stesso. Mentre la maschera grottesca, e a tratti inquietante, dell’Andreotti/Servillo del Divo acquistava verità proprio nello svelamento della propria finzione cinematografica – e il macchiettistico dietro le quinte della spettacolare vita del sette volte Presidente del Consiglio diventava metafora dell’oscenità (ob- scenum, fuori scena) del potere -, la figura di Jep/Servillo muove in direzione contraria. Il festaiolo impenitente devoto alla misantropia (Io non sono misogino, sono misantropo dice il giornalista, in uno dei tanti momenti in cui ostenta un linguaggio artefatto e aforistico) sembra atteggiarsi a unico interprete delle storture e delle contraddizioni dell’impero alla fine della decadenza e della distanza tra l’immobile e grande bellezza della Città Eterna, fissata dalla fotografia di Luca Bigazzi, e l’abietta miseria di chi ha abdicato al valore supremo del Sublime per qualche striscia di cocaina e iniezione di botox. Ancora, mentre il Divo Giulio, nella sua irrealtà, finiva per apparirci tremendamente umano, la pretesa realistica di Gambardella, che si prende sul serio anche quando sferra bordate satiriche e dissacranti, ottiene l’effetto, evidentemente opposto a quello cui, crediamo, ambisse il regista, di farcelo sentire distante e fasullo.
Nelle Conseguenze dell’amore e nel Divo l’autore procedeva per sottrazione, in un sottile gioco di silenzi, sottintesi, frasi sibilline e criptiche, rappresentazioni stranianti (indimenticabile la resa postmoderna e minimalista della strage di Capaci, ridotta ad uno skateboard che fa irruzione a Montecitorio e stravolge l’esito dell’elezione presidenziale), nelle ultime due pellicole la sensazione è che il napoletano abbia voluto strafare. Possibile che asserzioni stucchevoli e retoriche come Mi cibo di radici perché le radici sono importanti o, ancora, La povertà non si racconta, si vive, o immagini accattivanti come quella del mare nella stanza, emblema del ricordo ossessionante dell’amore giovanile di Jep, o dei fenicotteri che compaiono al crepuscolo provengano dallo stesso regista che raccontò l’ipotetico incontro tra Andreotti e Riina allestendo un quadretto grottesco a metà tra un duello western e un rendez-vous clandestino? C’è speranza che quel regista decida di mettere nell’armadio improbabili trame, melodrammi alla Muccino e scelte stilistiche fastose, con le quali sembra strizzare l’occhio allo spettatore e chiedergli “ma quanto sono bravo?”, e torni alla verità, anche nella loro plateale finzione, dei suoi primi personaggi? Attendiamo, trepidanti e fiduciosi, una risposta.