La bici è l’utopia, la necessità dell’uomo libero
settembre 13, 2020 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
Finalmente un libro felice senza il catastrofismo ormai obbligatorio, arrivato alla II edizione notevolmente ampliata. La vita di un uomo e della sua bicicletta, meglio è dire le sue bici, infatti ne ha dieci e una in camera.
E’ Martin Angioni, La 101 ragioni per cui vado in bicicletta, Utet editore. Angioni è stato in passato dirigente di varie aziende, anche Amazon, su cui ha scritto il libro più ficcante al mondo.
E’ sempre andato al lavoro in bici, sole, pioggia e sonno alba e tramonto, ha attraversato città complesse come Berlino, Tokio, Los Angeles, Seattle perché con la bici si arriva sempre in anticipo, non ci sono code, si passano i semafori col giallo, e la bici è uno strumento nato perfetto, sia pure evoluto attraverso molte modifiche.
Il “nato perfetto” mi imbarazza: inevitabile pensare a tanti oggetti nati perfetti: per Eco il libro, per Calasso il cucchiaio, per qualcuno gli scacchi (v. al British Museum la scacchiera dei Sumeri), per altri persino il cesso.
Martin Angioni non è un corridore, anche se alla fine si iscrive ad una piccola squadra: racconta l’idea (anche platonica) e il concreto della bici, a partire da come allenarsi, come dosare le proprie forze, a quanto il mondo visto dalla bici è più bello delle tristezze della cronaca, a leggere i sogni che porta.
Correre in bici rinfresca dal sole dell’estate e riscalda d’inverno, sui monti come a fondovalle. La polimorfia della bici serve anche a fare la spesa, insomma il ciclista si gode una rivoluzione copernicana.
Chi va in auto si porta appresso qualche quintale di latta, e par di vederlo con le parole di Franco La Cecla: Isterica fissità dello sguardo sul parabrezza, l’idiotismo di chi sta seduto e crede, accelerando, di vivere una grande avventura. Il corpo è il primo oggetto di ridicolizzazione, protesi di una protesi, intelligenza e attenzione prestata a una macchina è un inno al motore.
Ne ha scritto anche Ivan Illich in Elogio della bicicletta: L’uomo moderno drogato di trasporto, non ha più la coscienza dei poteri fisici, psichici e sociali che i piedi di un uomo posseggono. Non è più capace di crearsi un proprio dominio, di dargli la propria impronta e affermarvi la propria sovranità, non sa più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso si sente immobile.
Ricordo un libro del ’59 di Elémire Zolla, L’eclisse dell’intellettuale, che già denunciava l’uso scimmiesco di mani e piedi dell’automobilista.
Angioni conferma: L’automobilista non ha fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Non vuole essere un libero cittadino, ma un cliente, non tiene alla propria libertà di muoversi e parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato, invasato (cioè dentro nel vaso dell’auto).
A Berlino, dopo il lavoro Angioni raggiungeva i luoghi delle feste dove disinvolte ragazze dalle lunghe gambe se ne andavano da ultime, naturalmente in bici, lui e le ragazze “pleins de vin et de bière”, come cantava il grande Jacques Brel negli anni ’70.
La bici è un’utopia, scrive in uno dei più efficaci dei 111 capitoli: ci si ferma quando si vuole, ci si rinfresca in un fiume, si visita un centro storico, non si prendono multe, non c’è problema di parcheggio.
Scrive Angioni: Roberto Bolano proponeva negli anni Ottanta come soluzione alla guerra fredda: vivere molto, leggere molto, scopare molto. E replica: noi oggi scriveremmo: vivere molto, leggere molto, pedalare molto, intendendo che il terzo punto di Bolano è incluso nel primo, mentre è meno scontata l’esortazione a inforcare una bicicletta e partire alla conoscenza di noi stessi e del mondo, un piacere meno ovvio dell’accoppiarsi, ma altrettanto sicuro. E a chi mi chiede cosa mi spinge a pedalare tanto, rispondo: E’ bellissimo, è come passare una notte d’amore con Naomi Campbell.
La bici non ha algoritmi, non è né reale né virtuale, è un mondo di mezzo, poetico, che mette in contato noi – un frammento di realtà – con il mondo circostante, senza convenzioni, calcoli e secondi fini, non è un’azienda sofisticata, ma forma una disciplina, spesso un’amicizia.
Conferma lo scultore Aligi Sassu: “La bici incarna il mito dell’uomo libero”.
Alcuni capitoli del libro sono dedicati ai procedimenti chimici e cerebrali che la bici mette in moto, ed è un piacere sapere che il nostro cervello ne è tutto coinvolto, eccitato, stimolato. Studiarlo, come l’ha descritto lui, significa diventare un piccolo medico. Anche un filosofo:
La bici è anarchia, è un modo di vivere anticonformista, e a chi dice: io ho uno stile di vita, badate bene, in realtà ha una vita senza stile.
Se nel Basso Medioevo si diceva che la città rende liberi, ora è la bici che rende liberi perché la bici siamo noi. Si potrebbe continuare con altre decine di titoli che riempiono 270 pagine.
Angioni che è di Milano e da lì raggiunge quasi tutta l’Italia, anche caricando per qualche tratto la bici sul treno oppure in aereo, scende per primo dal traghetto intasato di auto, si sofferma sui luoghi già visti in una lezione d’arte che ci porta dal Sant’Andrea dell’Alberti a Mantova, a luoghi poco noti come il Ninfeo di Genazzano o villa Pojana del Palladio o Orta san Giulio, hortus conclusus, che si affaccia sul lago e l’isola di san Giulio. Pedala, arriva a Cernobbio e scala il monte Bisbino, boschi di conifere, sterrate non battute; spesso invece corre l’Appennino ligure. Ricorda il Goethe del Viaggio in Italia: Vediamo ciò che conosciamo, ma è anche bello partire senza sapere dove andremo. Lo svizzero Claude Marthaler il più forte viaggiatore ciclista è partito per il Giappone senza carte geografiche: si va dove ti porta la strada, la direzione è a est.
Scrive Angioni: Se esiste la sindrome di Stendhal, è altrettanto potente la sindrome estetica della bicicletta che aggiunge contemplazioni multisensoriali derivanti da un corpo in movimento nel paesaggio.
Il suo libro è rivolto all’umanità, ma secondo me ne dovrebbe essere imposta la lettura con relativo esame agli assessori all’urbanistica di tutta Italia. Un esame diviso in tre parti come quello per la patente nautica: carteggio, interrogazione, prova in strada, Costretti a studiare, gli assessori saprebbero che tra le primi venti città d’Europa che hanno uno sviluppo ciclabile, non ce n’è una italiana e, per quanto ne so, quei signori, quando vantano di aver allungano le piste ciclabili, hanno reso difficili le esistenti, ristrette con muretti che permettono il passaggio di una bici soltanto con pericolo di caduta al primo sbandamento, là dove ne passavano due, inventando percorsi tortuosi costruiti per chi va a spasso, non per chi va a lavorare, eppure l’Italia ha un clima adatto alla bicicletta, più di quello di Helsinki, per esempio.
Quanto all’inquinamento, meglio stare zitti.