La biblioteca dell’anima è una geografia
agosto 19, 2020 in Recensioni da Mario Baldoli
C’è un luogo, il lago di Garda che se lo guardi da Peschiera verso Nord è un mare, così come se lo guardi da Tignale verso sud: d’improvviso aperto, immenso di scintille come un cristallo o opaco di nebbia secondo i capricci del cielo, tranquillo o furibondo tra le brezze o i venti lo spingono.
Tutti i grandi ne uscirono turbati: Goethe, Mi levo la scorza come un serpente che rinasce; David Herbert Lawrence, Viti, olivi, limoni, di fronte il Baldo coperto di neve. Kafka e Sebald, nessuno sfugge al suo limpido virus.
In maniera originale incontriamo il Garda nel libro di Pino Mongiello, In certi luoghi dell’anima, Garda Polesine Gargano, con scritti di Mongiello, Francesco Permunian e la postfazione di Nino Dolfo, Grafo editore.
I luoghi dell’anima in quest’opera sono un triangolo: al vertice in alto il Garda di oggi, negli altri angoli il Gargano e il Polesine, le radici fonde lasciate dai genitori, il Gargano per Mongiello, il Polesine per Permunian: una geografia nella quale il segmento della vita mentre corre avanti, riesce anche a voltarsi verso il tempo ritrovato della propria storia.
Gli anni passano, e i ricordi lontani, invece di spegnersi, rimbombano periodicamente mai sciolti, come il Levante ligure di Montale o la Costa catanese di Verga, anch’essi luoghi di mare a dare l’abbrivo ai due gardesani. Non si scherza troppo con i ricordi, essi arrivano come gatti sornioni in compagnia di colori e sapori, dolori e amicizie, esperienze ed amori, profumi di passato, il quadrifoglio di un libro vecchio preso per caso nello scaffale di una biblioteca.
Il titolo è volutamente intrigante: In certi luoghi significa anche luoghi incerti perché la memoria, se pur vivida e rinnovata da frequenti visite alle radici della pianta antica, è un’amica inaffidabile, smussa gli angoli delle piazze e inventa la curva delle vie, gioca con aspettative e sentimenti, con l’irrazionale del desiderio. Dietro la memoria – la regina delle Muse, secondo gli antichi – vive una probabile irriducibile nemica: la nuova viabilità con i sensi vietati, il decoro urbano, l’edificazione più o meno illecita, i soldi, il turismo, la volgarità.
I due, lo scrittore Permunian, già bibliotecario a Desenzano e il saggista-giornalista-fotografo Mongiello sono uniti da un mondo d’acqua, oggi come in passato lo erano i loro genitori, l’acqua, “la migliore di tutte le cose” la definì Pindaro nel primo verso della prima Olimpica.
Il libro è fatto da settanta fotografie di Pino Mongiello, un dilettante appassionato che nella fotografia vuole conoscere le cose più di quanto appaiano all’occhio nudo, in esse vede la metafora della realtà, si tuffa nelle immagini e nelle persone con animo aperto, senza intellettualismi e forzature (dio ci liberi dai colori alterati alla McCurry, come dal turista che fotografa prima di guardare; dio ci liberi da chi vuole vedere le foto appena scattate per poter farne altre cinquanta uguali, diceva Berengo Gardin chiedendo con ironia: “ma quello è un fotografo”?
Poi a casa gli amici passano qualche ora nervosi davanti a un grande schermo repleto di slide: ma che bello!.Cos’è?
Mongiello fissa il Garda in monti, forre, caverne, prati, rocce, acque e venti che mutano l’aria e i colori. S’addentra, lirico fotografo, nel Polesine che Permunian giudica un labirinto fatto ad incastri: campi di grano e papaveri al vento, nebbie e erbe ingiallite, argini bassi attraverso cui il Po apre i rami del suo delta per entrare nel mare. Luoghi ove lui torna ogni estate leggendone la squallida trasformazione: una strada nuova, lidi privati, sedicente “musica” elettronica che fa tremare la terra e le viscere, pubblicità gridata, danze salutistiche in acqua e fuori, clacson e ressa nei posteggi.
Ma sono certi i luoghi della memoria?
Guardate, meditate o prese a volo, questo libro è un presente che recupera il rimasto del passato, fra la sorpresa delle prospettive e la distesa dei colori. Non è un omaggio alla nostalgia, ma un manifesto disinvolto e provocatorio perché la sua bellezza ci inchioda al nostro esibizionismo, vanità, ignoranza, scolpisce quello che vediamo ogni giorno e seppelliamo nella ripetizione e banalità di quella vita che non sa vedere. Occhi, visione e visione senza occhi fu il titolo dell’ultima conferenza prima di morire dello psicoanalista Georg Groddeck alla Società psicoanalitica di Zurigo: era il 1934, e fu come l’accendersi della luce.