Jaques Villeglé e le “realtà collettive”

febbraio 1, 2014 in Arte e mostre da Laura Giuffredi

112Haussmann“Io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare: quella che si fa per via di porre, è simile alla pittura” (lettera di Michelangelo a messer Benedetto Varchi, filologo e storico fiorentino).

Chissà se nella riflessione e nell’azione di Jaques Villeglé la dialettica cui alludeva Michelangelo secoli prima, e la sua concezione neoplatonica dell’arte, hanno trovato posto. Forse non consapevolmente, ma certamente nel visitatore tale suggestione può affiorare.

La mostra retrospettiva dedicata a Jaques Villeglé, in corso alla Galleria Agnellini di Brescia (visitabile in via Soldini 6/A fino al 5 aprile), si intitola “CINQUE” poiché, in quaranta opere, ripercorre i cinque anni di collaborazione dell’artista con la galleria stessa. Un’occasione non comune di accostare un artista vivente tra i più rappresentativi del cammino dell’arte contemporanea, espressione di un “nouveau realisme” che si è sviluppato dai primi strappi agli ultimi grafismi socio-politici, in una stralunata scrittura simbolica.

Jacques Villeglé nasce a Quimper, in Bretagna, il 27 marzo 1926, ma è a Saint-Malò, nel ’47, che l’artista avvia la sua riflessione sull’arte del reale. Cominciando con l’appropriarsi dell’intenzione di Mirò: “voglio assassinare la pittura”. Dalla collaborazione iniziale con Raymond Hains alla Parigi che lo vede definire la tecnica dei manifesti lacerati, si arriva, nel 1958 al testo programmatico Des réalités collectives, che sancisce la fine della pittura di trasposizione.

Lo scopo diventa infatti far posto alla “poesia della strada”, attraverso la riproducibilità di immagini che diventano voci della città: strappi colorati quasi pittorici, messaggi politici, slogan pubblicitari, annunci ludici sono sottratti ai muri e decontestualizzati con un’operazione di contrasto all’iconografia metropolitana.

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L’arte si fa dunque gesto spontaneo di appropriazione del reale, e i manifesti strappati sono intesi come riflesso coerente e canzonatorio di una realtà condivisa, in tutte le sue contraddittorie manifestazioni,

Se i manifesti appesi da mani anonime rivelano i più diversi messaggi sociali, politici, economici di un’età avviata al riflusso, al consumo, alla contestazione, Villeglé sente la necessità di coniare un nuovo alfabeto di segni, colori, immagini tronche, lettere monche, parole mascherate, avanzi. Si afferma, in particolare dal 1961, il primato del “rapire”, lacerando, sul “fare”.

Con l’affiche, con i grafismi socio-politici, l’autore inventa una forma nella quale segni, immagini e colori, interagiscono e, anzi, si scontrano: un dualismo che conferisce all’opera una complessità e una dinamica interna in rottura sia con le pratiche surrealiste sia con la pittura informale e con “la vecchia tecnica artigianale” della pittura a olio stesa a pennello.

Gli strappi anarcoidi e multicolori di Villeglé puntano ad un’unità intessuta di elementi diversi, persino antagonisti, con “una pluralità di significati che coesistono in un unico significante” (in quegli anni lo chiariva anche U. Eco nella sua “Opera aperta”, 1965).

Dal suo pubblico Villeglé si aspetta dunque una lettura attiva, che non può essere fissata in un’unica interpretazione. L’immagine ci fa vedere, ma fino ad un certo punto, implicando il lavoro integrativo dell’osservatore e solleticando il suo desiderio di sapere di più di quelle storie, di quelle vite, affioranti dalla carta, strappata e assemblata in atelier. Attraverso i suoi “lacerati anonimi” l’artista vuole insomma anche condividere con dei passanti la qualità di “autore”, che l’anonimato trasforma in un “collettivo” non identificabile, all’origine della materia prima dell’opera.

I “laceratori” e il loro pubblico generano disordine in una società dello spettacolo regolamentata da politici e pubblicitari, perchè la popolazione ha l’opportunità di “immischiarsi” nei loro messaggi e annunci che tappezzano i muri (di Parigi), stravolgendoli paradossalmente.

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Intitolare l’affiche con il nome del luogo e la data della “scoperta”, da parte dell’autore vuol dire nominare la propria scelta e introdurla nel mondo dell’arte.

Si veda un’opera come “Rue de Vaugirard” (1965) che invita “Venite alla serata”, con istruzioni scritte in corsivo, anche in arabo, circa i bus da prendere per raggiungere l’evento: ma dove? E quando? Altri lacerti colorati si sovrappongono a quel messaggio.

O il monumentale “112 Boulevard Haussmann” (1968), nel quale affiora una critica divertita, ma anche aspra della società viva del tempo.

E se l’italiano Mimmo Rotella, con mezzi analoghi, parlava di “gesto che strappa come affermazione della manualità, riappropriazione in termini creativi dei nuovi miti iconografici”, il lavoro di Villeglé pare giungere più in là, mutuando il gesto tecnico originario tramite un evento di decontestualizzazione della civiltà mediologica, con un’operazione di contrasto all’iconografia metropolitana, ormai satura di immagini, ma forse povera di significati.

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