Isabella e Giorgio Marincola: dall’Africa una storia italiana
settembre 14, 2023 in Approfondimenti da Claudia Speziali
Da vent’anni una nuova generazione di studiosi e studiose in Italia cerca di produrre riflessioni critiche sul periodo coloniale e postcoloniale italiano, ma è nel 2020, a seguito del movimento Black Lives Matter, che il nome di Giorgio Marincola è finalmente riconosciuto dall’opinione pubblica italiana. Il nipote Antar Mohamed Marincola non ha mai smesso di tentare di far conoscere la storia di suo zio Giorgio e, nell’agosto del 2020, il Comune di Roma decide di intitolargli una nuova fermata della Metro C, che sarà terminata nel 2024 e che si trova nei pressi di un viale denominato Viale Amba Aradam, luogo in cui i soldati fascisti in Etiopia uccisero 20.000 persone con l’uso di gas tossici.
Giorgio Marincola nasce in Somalia nel 1923, da Giuseppe, maresciallo di fanteria calabrese di stanza nel Paese dal 1919, e Aschirò Hassan, una giovane donna somala. Due anni dopo la nascita di Giorgio, nel 1925, viene alla luce la sorella, Isabella. Tuttavia, in una lettera al fratello, Giuseppe scrive: «Quanto è difficile non cadere nel peccato, posto che il matrimonio con le somale è davvero contro natura, perché oltre ad essere negre sono pure maomettane, e dunque sposarsi non ripugna soltanto a noialtri, ma perfino a loro».
Nel 1926, Giuseppe riconosce i figli e li porta in Italia, sottraendoli alla madre, poiché ritiene che una donna africana non sia in grado di crescere i suoi figli. A causa di questa decisione, Giorgio non avrà più modo di vedere sua madre, mentre Isabella la incontrerà solo dopo decenni. Osserva Isabella, ormai adulta: «Per lungo tempo, mi sono raccontata che mio padre è stato un gentiluomo, che ha fatto un gesto generoso, molto insolito per quei tempi. Darci il suo cognome, il nome dei nonni. Ma ora che ascolto mia madre, ora che lei può parlare, mi rendo conto che devo accettarlo: sono figlia di una violenza, e lo sarei anche se i miei genitori si fossero tanto amati, come in un bel fotoromanzo. L’amore ai tempi delle colonie è impastato di ferocia. Un pugnale affilato minaccia e uccide, anche se lo spalmi di miele». Giuseppe affida Giorgio al fratello Carmelo e a sua moglie Eleonora Calcaterra a Pizzo Calabro, mentre porta Isabella con sé a Roma e qui sposa Elvira Floris, con la quale avrà altri due figli, Rita e Ivan. Giorgio vive a Pizzo fino al 1933, quando si trasferisce a Roma dopo la morte dello zio. I fratelli sono per diritto di sangue cittadini italiani. Cittadini, italiani neri negli anni del fascismo e delle leggi razziali. L’infanzia di Isabella non è felice, ha un pessimo rapporto con la matrigna che vede nel colore della pelle della ragazza la prova inconfutabile del tradimento del marito, ed è inoltre oggetto di discriminazione razziale. Così ricorda quegli anni: «Il razzismo che ho conosciuto da ragazza era molto diverso da quello di oggi. La gente era più curiosa che ostile, almeno in apparenza. Negli anni Trenta, molti vedevano in me l’icona dell’avventura coloniale e mi vezzeggiavano come una bertuccia ammaestrata. Erano entusiasti di questa “bella abissina” che parlava italiano e faceva la riverenza, ma si guardavano bene dall’invitarmi per una merenda con le figliole. Col tempo, quelle coccole zuccherose si evolsero in direzioni opposte: da una parte, l’approccio sessuale esplicito, offensivo; dall’altra, lo sguardo indiscreto, come filtrato dai rami di una siepe. A teatro, in tram, per la strada: ovunque andassi mi sentivo studiata, con gli occhi e con le parole. “Guardale le labbra, guardale i capelli, guardale la pelle. È una mulatta”».
Nel 1938 Giorgio incontra Pilo Albertelli, docente noto per le sue posizioni spiccatamente antifasciste, che instilla in lui e i suoi compagni un pensiero critico di dissenso verso il regime, e dopo poco comincerà l’attività di resistenza insieme al professore e altri compagni. Terminato il liceo nel 1941, Giorgio decide di iscriversi alla facoltà di medicina. Nel frattempo, Roma, subisce gravi bombardamenti; nel 1943 l’abitazione dei Marincola è danneggiata e la famiglia sfolla a Montorio Romano. Giorgio comincia a operare all’interno del Partito d’Azione e lì ritrova il professor Albertelli che, dopo l’arresto e venti giorni di torture, è fucilato nella strage delle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Agli inizi di giugno 1944 gli Alleati entrano a Roma, ma Giorgio decide di continuare l’attività di resistenza e si fa paracadutare tra Ivrea e Biella: dall’agosto del 1944 fino agli inizi del 1945, con il nome di battaglia di Mercurio, si occupa principalmente di azioni di sabotaggio delle linee ferroviarie e automezzi tedeschi. Nel gennaio del 1945 è arrestato durante un rastrellamento nazifascista e condotto a Biella, nella famigerata Villa Schneider, luogo di terribili forme di torture e violenza. Dall’edificio trasmette Radio Baita, a cui i prigionieri sono obbligati a partecipare. Alla domanda sul perché un italo-somalo combatta con la resistenza Giorgio, di fronte ai propri aguzzini, risponde: «Sento la patria come una cultura e un sentimento di libertà, non come un colore qualsiasi sulla carta geografica… La patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista. Patria significa libertà e giustizia per i popoli del mondo. Per questo combatto gli oppressori…». La trasmissione è interrotta mentre si sente, per pochi istanti, il rumore delle botte che colpiscono il corpo di Giorgio. Il giovane è trasferito a Torino e poi deportato nel campo di concentramento di Bolzano, che sarà consegnato alla Croce Rossa Internazionale alla fine dell’aprile 1945.
Nonostante la possibilità di essere trasferito in Svizzera dalla Croce Rossa, Giorgio decide di unirsi di nuovo alla resistenza partigiana e si incammina verso la Val di Fiemme. Il 4 maggio 1945 a Molina di Fiemme, nell’ultima strage nazista compiuta sul territorio italiano, un camion tedesco che mostra la bandiera bianca della resa, apre inaspettatamente il fuoco e Giorgio è colpito a morte; ha ventidue anni. Proseguendo a Stramentizzo le SS uccidono undici partigiani e dieci civili. Nella notte tra il 4 il 5 maggio un fotografo è inviato sul luogo della strage e il corpo di Giorgio è identificato come il «cadavere inspiegabile»: quel che è certo è che non può essere italiano, visto il colore della pelle. Nel gennaio del 1946, l’Università di Roma conferisce alla memoria di Giorgio Marincola la laurea ad honorem, nel 1952 è decorato dalla Repubblica italiana con Medaglia d’Oro al Valor Militare e nel 2008 con la pubblicazione del libro Razza Partigiana di Carlo Costa e Lorenzo Teodonio la sua storia riceve finalmente attenzione. L’oblio nazionale di questa storia è fonte di grande dolore per Isabella che fino all’ultimo giorno di vita, continuerà a chiedersi: «Per quale paese è morto mio fratello?».
Dopo la sua morte, la ragazza si ritrova sola, la situazione in casa si deteriora ulteriormente, e così decide di andarsene. Studia e frequenta scrittori, registi, scultori, artisti. Si dedica al cinema e al teatro, ed è la mondina nera di Riso Amaro, il film diretto da Giuseppe De Santis con Vittorio Gassman, Raf Vallone e Silvana Mangano. Inoltre, posa come modella, si sposa e risposa fino ad arrivare ad avere tre mariti, l’ultimo dei quali, un somalo, nel 1961 la riporta nella sua terra natia, e lì, finalmente, Isabella incontra sua madre. Resta a Mogadiscio per trent’anni, fino al maggio 1991, ed è l’ultima cittadina italiana rimasta a Mogadiscio ad essere rimpatriata dalla Somalia in guerra.
E qui ricomincia il calvario: «Una vecchia italiana dalla pelle scura, una profuga in patria, che al rientro si ritrova a dover affrontare un razzismo aggressivo, prodotto da un Paese politicamente insicuro e impaurito, pur se diverso da quello che aveva provato all’epoca dell’Italia fascista, delle leggi razziali, che Isabella avvertiva allora solo con il peso del suo corpo di donna selvaggia ed esotica: una “gazzella colorata”». Muore nel 2010. Nel 2012 esce Timira. Romanzo Meticcio, scritto da Giovanni Cattabriga, conosciuto con lo pseudonimo Wu Ming 2, da Isabella e da Antar Mohamed Marincola, il figlio avuto dal suo ultimo matrimonio. Il titolo deriva dal nome somalo utilizzato da Isabella, Timira Hassan, e il romanzo unisce la sua storia con quella del colonialismo e delle sue barbarie.
di Claudia Speziali