Internet e l’autunno della democrazia
maggio 18, 2014 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
In passato G9 ha consigliato e recensito, con qualche critica, il libro di Assange Internet è il nemico.
Ora consigliamo un piccolo libro di Stefano Rodotà Il mondo nella rete. Quali i diritti, quali i vincoli, ed. Laterza-la Repubblica. Una ricerca che pone e sviluppa un problema fondamentale: la liberta nella/della rete e il diritto alla privacy.
Come si sa, in alcuni siti e nei social network, tutti possono leggere e comunicare con tutti, “postare” quello che credono, comprese offese e calunnie. Né mancano i siti criminali. E’ sempre difficile scoprire l’autore e non si riesce a ottenere più che far togliere i falsi. La scelta dei social network di non controllare gli scritti crea, secondo Rodotà, una “libertà totale” e una “democrazia orizzontale”.
Questa almeno è l’apparenza. Infatti ammette che governi poco democratici e grandi industrie ne approfittano per controllare la vita dei cittadini, compresa – evidentemente- la loro posta elettronica. Ad esempio, gli Stati Uniti controllano milioni di comunicazioni al loro interno e – hanno ammesso – l’attività di almeno 35 Stati (tra cui spicca il Vaticano) quasi tutti loro alleati (chissà che succede con gli altri). Il pretesto è sempre lo stesso: proteggersi da nemici più o meno reali. Per esempio, guardie svizzere e cardinali.
Il postulato è che meno uno Stato controlla, più è debole. I social network permettono di sapere moltissimi dati personali di oggi e del passato negando oltre alla privacy, il diritto all’oblìo, cioè a cancellare i dati passati (anche falsi) che quindi gravano per sempre sulla persona. Forse è esagerato dire che una persona è i suoi dati, ma si sbaglia di poco.
L’altro corno del problema è il diritto alla privacy. Qui Rodotà si avventura su un crinale sottile. Da un lato sostiene che Internet è necessario, è un diritto fondamentale, una priorità per tutti gli Stati, poi chiede una modifica dell’art. 21 della Costituzione, secondo cui: “Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di comunicazione”. L’articolo fissa poi i limiti di tale libertà. Rodotà scrive che si dovrebbe aggiungere: “Tutti hanno il diritto di accedere alla rete internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. Ciò perché oggi – sostiene- la cittadinanza digitale accompagna la persona nel suo essere nel mondo.
Dall’altro, elemento costitutivo della cittadinanza è il diritto all’anonimato, all’oblìo, alla cancellazione dei dati personali perché il passato non deve ipotecare il presente e il futuro. Passare dall’habeas corpus all’habeas data. Occorre un nuovo diritto alla privacy che deve passare da diritto a escludere gli altri (concezione liberale) a diritto di mantenere il controllo sui propri dati. Ciò tuttavia non può dipendere solo dall’individuo, ma da un contesto internazionale che fissi i limiti da rispettare. Infine, “l’attenzione ai diritti è essenziale per il destino della rete”.
Concludono il libro alcune interviste a funzionari dello spionaggio americano, passati a rivelare documenti segreti. Essi mostrano come lo Stato possa spiare tutti i suoi cittadini, anche nelle comunicazioni col cellulare e, attraverso parole chiave, controllare chi vuole. Segue la dichiarazione di 560 intellettuali di tutto il mondo che denunciano la “sorveglianza di massa” esercitata dagli Stati e riaffermano che “tutti gli esseri umani hanno il diritto a non essere osservati e disturbati nei loro pensieri, nel loro ambiente personale e nelle comunicazioni. Questo diritto umano fondamentale è stato annullato e svuotato dall’uso improprio che Stati e grandi imprese fanno delle nuove tecnologie a fini di sorveglianza di massa. Una persona sotto sorveglianza non è più libera, una società sotto sorveglianza non è più una democrazia (…) la sorveglianza è un furto. Questi dati non sono proprietà pubblica: appartengono a noi”.
Segue un appello a Stati, cittadini, Nazioni Unite, Governi affinchè aderiscano alla loro dichiarazione.
Mi identifico completamente in questa dichiarazione “conservatrice”.
Le proposte di Rodotà mi sembrano remote utopie, anche inutilmente pericolose, come quella di mettere internet in Costituzione.
Ma succedono anche fatti nuovi, inaspettati. Sul “Corriere” del 4 maggio è apparsa la notizia che il sito Usa Thedirty (praticamente “lo sporcaccione”) è stato condannato a una multa di 338.000 dollari perché qualcuno aveva “postato” che una certa Sarah aveva avuto rapporti sessuali con un’intera squadra di calcio rimediando anche malattie veneree. Il giudice ha stabilito che la notizia era falsa e ha condannato il sito. Siccome le sentenze negli Stati Uniti fanno giurisprudenza, le multinazionali, a partire da Google, hanno subito lamentato di non poter controllare quanto viene pubblicato, che questo sarebbe censura e che internet crollerebbe.
Cosa dovrebbe dire un cronista della televisione o della carta stampata, passibile di condanna se scrive il falso? O Iacona e Gabanelli, denunciati con assurde richieste di denaro da aziende su cui dicono una verità scomoda? Aziende a cui non importa niente di essere condannate, ma molto di intimidire. Solo ai network è ammesso distruggere persone, mostrare fotografie falsificate, evadere il concetto di responsabilità. Perché la legislazione mondiale deve essere quella americana? The dirty è ricorso in appello e, se perderà, andrà alla Corte Suprema. E’ improbabile che le multinazionali siano sconfitte, ma almeno un segno di civiltà possiamo dire di averlo sentito, grazie a Sarah.
L’altra buona notizia è che la Corte europea ha stabilito che il gestore di un motore di ricerca è responsabile dei dati personali che appaiono sul web, postati da altri o ripresi da qualche mezzo di informazione. Ciò è avvenuto in seguito alla causa intentata da un cittadino spagnolo contro Google che scrive, avendolo ripreso da un giornale, come avesse subito un pignoramento nel 1998. Fatto che ha danneggiato il suo curriculum.
La sentenza della Corte sancisce dunque il “diritto all’oblio”.
Google che gestisce il 90% delle richieste in rete in Europa andrà in appello. La sentenza della Corte è vicina alla posizione di Rodotà perché sostiene che la soppressione di certi link potrebbe danneggiare il legittimo interesse degli utenti ad informarsi. Di conseguenza occorre ancora trovare un equilibrio tra l’interesse generale a sapere e il rispetto della vita privata. Tuttavia il motore di ricerca può mantenere nel suo archivio i dati cancellati. Nel caso possano interessare qualche Stato o qualche altra forza con potere di ricatto. E ciò avviene spesso, evidentemente senza avvertire l’interessato .
E’ giusto ricordare che il governo degli Stati europei ricchi e civili ha deciso di tassare i motori di ricerca che agiscono sul proprio Paese, mentre quello italiano (col suo parlamento) non si pone il problema, come non si preoccupa di farsi restituire i soldi delle evasioni dalla Svizzera, né di fare l’asta per le concessioni televisive.