Incontrare Primo Levi
gennaio 27, 2016 in Interviste, Letteratura da Mario Baldoli
Ho incontrato Primo Levi trent’anni fa, nel 1986, l’anno prima della sua morte.
“Una capra dal viso semita” fu il mio primo pensiero vedendolo, tanto calligraficamente il suo volto corrispondeva all’immagine che avevo di lui. Da quell’incontro uscì un’intervista pubblicata da “Bresciaoggi” il 26 luglio con il titolo I fantasmi di Auschwitz.
Dal primo libro Se questo è un uomo (1947) all’ultimo I sommersi e i salvati (1986), che è anche il titolo di un capitolo di Se questo è un uomo, si conclude, in un percorso circolare, l’opera di Primo Levi.
Nel 1947 ha finalmente trovato un editore per quello che aveva scritto di getto sulla vita del Lager, 39 anni dopo ha scritto un’indagine storica sul quel mondo. Sette capitoli: i colpevoli che ne negano l’esistenza e le vittime che ne rimuovono il ricordo; la trasformazione dell’uomo nel Lager (quanto più dura è l’oppressione, tanto più si diffonde la disponibilità a collaborare col potere); il senso di colpa dei sopravvissuti; la lingua del Lager; le ragioni della violenza nazista; l’utilità della cultura anche nel Lager; l’incomprensione di oggi: perché non siete scappati? Non vi siete ribellati? Sette capitoli attraversati da una tensione fortissima, a volte insopportabile.
(Quanto scrivo si rifà solo in parte a quell’intervista. Ho lasciato qui parlare il più possibile Primo Levi, il senso delle sue parole si comprende anche con poche mie domande. Si tenga conto che l’intervista ha trent’anni, non sappiamo cosa direbbe sull’immigrazione e le stragi di oggi. Per una conoscenza approfondita si legga Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Guanda, p.735. Per comprendere gli anni della Resistenza fino alla sua cattura, Frediano Sessi, Il lungo viaggio di Primo Levi, Marsilio, p.180; ambedue ricchi di testimonianze dirette).
E sempre la domanda: Auschwitz può tornare?
Io non credo che si possa assistere a breve scadenza a qualcosa come Auschwitz, perché un certo effetto di “vaccinazione” c’è pur stato. E ciò vale soprattutto per la Germania, i tedeschi oggi sono molto simili agli italiani. E’ vero che in Austria e nei paesi dell’Est c’è dell’antisemitismo, ma credo sia il vecchio antisemitismo di marca asburgica, una forma di xenofobia, molto parente di quella che avviene in Alto Adige nei confronti degli italiani.
Chi entrava nel Lager sperava almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma questa solidarietà non c’era. Questa rivelazione brusca si manifestava fin dalle prime ore di prigionia… era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. L’urto con la realtà concentrazionaria coincide con l’aggressione, non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano: il prigioniero funzionario che invece di prenderti per mano, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi, e che lui ha perduto.
Lei ha scritto la prefazione all’autobiografia di Rudolf Hoss, Comandante ad Auschwitz (1985).
E’ un documento fondamentale: Hoss era un uomo semplice, non era in grado di falsificare se stesso. Ha raccontato lui, meglio di me e di chiunque altro, come una persona normale possa, sotto la spinta di una società violenta, diventare uno dei peggiori criminali della storia.
I crimini e i massacri continuano, anche peggiori di quelli nazisti.
E’ una nostra colpa collettiva aver ignorato quanto succedeva in Cambogia dieci anni fa. Come percentuale di popolazione è un massacro superiore all’Olocausto. Sono rimasto spaventato di fronte a un evento intrinsecamente orrendo, le cui motivazioni ci sfuggono. Si tratta di un fanatismo come quell’altro, ma anche diverso, di un popolo contro se stesso.
Da tempo la scienza sembra al servizio della distruzione di massa.
Questo sì, è lo scandalo peggiore oggi, che tutte le potenze industriali investano nella produzione bellica nel modo più indiscriminato. Non sono abbastanza attrezzato ideologicamente per suggerire rimedi validi, se non quello di una presa di coscienza. Qualche volta mi è venuto in mente (è un’idea molto ingenua) di proporre una specie di giuramento di Ippocrate per i giovani che si iscrivono alle facoltà scientifiche. Forse si potrebbe abbinare a qualunque studio un rudimento di morale professionale che adesso manca completamente.
Quale molla l’ha spinta a ritornare sul tema del Lager, a sopportare il dolore di ricordare, documentare, ricostruire?
Scrivere il libro mi ha alleviato il cammino. Mi è sembrato, come dire, di sciogliere un voto, di adempiere a un impegno. E ho scritto anche di altre cose.
Sì, Il Sistema periodico e La chiave a stella, libri che mostrano come Levi sia l’unico italiano che ha saputo essere umanista e insieme scrivere di scienza, cioè, per usare la lingua della sua amata chimica, trasformare un miscuglio in un composto.
Quale impressione mi ha lasciato? Era la persona più seria che ho conosciuto: in ogni domanda cercava l’aspetto più difficile, spesso taceva per qualche secondo prima di rispondere. E’ bello ricordarlo, una capra dal viso semita.