In bicicletta per essere felici
marzo 22, 2023 in Approfondimenti, Recensioni da Mario Baldoli
C’è un oggetto – diceva Umberto Eco – che non cambierà mai: il cucchiaio. Un altro non cambierà mai: la bicicletta; della metà Seicento il primo, della metà Settecento la seconda (non credete a chi la piazza mezzo secolo dopo).
Un oggetto dalle mille vite, dal velocipede alla mountain-bike all’elettrificata. Con una differenza rispetto al cucchiaio, che nel momento in cui la porti fuori dal negozio la bici cambia nome: si chiama Avventura. Da oggetto è diventata sentimento, come il desiderio e l’amore. Che la usiamo un’ora al giorno per andare e tornare dal lavoro, per portare una ragazza sulla canna e sentirci tanto vicini, per fare il giro d’Italia o del mondo, e la notte sognare Bartali e Coppi.
Ecco due libri preziosi, il primo dell’amico Francesco Gusmeri, Prendo la bici e vado in Australia. Da Brescia a Melbourne alla ricerca della felicità (2011), il secondo di Emilio Rigatti, La strada per Istanbul, appena pubblicato con una nuova prefazione (la prima edizione è del 2002), ambedue Ediciclo.
Mi piace tenerli insieme anche se un decennio li divide: mentre le gambe spingono i pedali, si incontrano paesi diversi e confini spesso cattivi, nuove umanità, cibi e alloggi strambi (Francesco viaggia anche con una tendina), vento e tempeste, boschi e deserti, incontri con persone che alla vista di quel piccolo immortale strumento sciolgono la gentilezza, offrono un pasto e una notte in casa. L’avventura di Francesco dura più di un anno, macina 25000 km, toccando 3630 m d’altezza, una tempesta gli rompe un montante della tenda, lo sorvolano agili le aquile, una tarantola gli si infila insistente sottocoperta. Vive la splendida ospitalità islamica. Paesaggi indimenticabili che si aprono dall’alto di un passo, valli a strapiombo. Vede le rovine della guerra nell’ex Jugoslavia, l’orrore di Sarajevo, combatte con le salite della Turchia, costeggia il Caspio e il Caucaso, raggiunge Bukhara e Samarcanda, scende la Cina, il Vietnam, l’Indonesia dove l’Italia è nota per merito di Roberto Baggio, a Sumatra prende il tifo, qualche pastiglia e continua contro vento per gli immensi piatti deserti australiani. Ad Alice Spring, proprio al Tropico del Capricorno, gli rubano la bicicletta che per fortuna il giorno dopo ritrova. Ecco, se ti rubano qualcosa è nei Paesi ricchi, non in quelli poverissimi: il commento è mio, non di Francesco.
Lui, arrivato a Melbourne, combatte con l’idea di non tornare più in Italia, poi prende l’aereo, un amico mecenate gli fa arrivare a Brescia l’adorata bici.
E sono due libri diversi: il primo è di un ciclista giovane e solitario; il secondo è la storia di tre amici in età di pensione: Emilio Rigatti, Francesco Altan e Paolo Rumiz. Partono da Trieste percorrono una strada più a nord: Slovenia, Slavonia, Serbia dove trovano i segni dei bombardamenti della Nato con un’ospitalità che non tiene conto che a bombardare c’eravamo anche noi. Lì sono intervistati da una radio locale in una situazione tutta da ridere. Costeggiano i confini dell’Ungheria attraversano Romania e Bulgaria, infine Edirne e le sue moschee con la preghiera del muezzin e le luci che trascolorano sui minareti.
Questo libro è naturalmente più rilassato. Gli amici a volte si dividono per strade diverse e si ricongiungono, percorrono vie e sentieri non frequentati, orti e campi dove i contadini tagliano l’erba con la falce, incontrano paesi dove non esistono piazze, ma case che si estendono per km, come qualche città invisibile di Italo Calvino.
Il loro viaggio si apre a citazioni colte del passato come dell’attualità. Ad esempio Rilke: Tra il giorno che finisce e quello che inizia, si forma una minuscola fenditura (da dove, uscendo dal tempo) recuperiamo le cose che abbiamo perduto. Ma anche intravvedono Achille, la tartaruga e la dolce nascita del Danubio, secondo Magris. Ai confini incontrano donne bellissime, la prova che la razza mista è meglio di quella pura. A qualcuno viene in mente la faccia di medusa della Albright.
In Bulgaria trovano gli zingari, sempre vittime di discriminazione e violenze, pelle scura, occhi a volte chiarissimi così belli che sembrano appartenere ad un’altra persona. Passano un paese senza chiesa, municipio, bar, s’infilano in quella che sembra un’osteria, stipata all’inverosimile, impregnata di umanità e odore di fatica, solo tute blu da lavoro e sudici vecchi berretti. L’andamento delle rughe segna le loro facce, la piega delle bocche che non sorridono mai, che sembra tirata verso il basso, come se la forza di gravità si fosse condensata attorno ai loro corpi e nel legno scuro di quei tavoli massicci. C’è un che di corale e plumbeo nell’ambiente. Come i contadini dei quadri di Zigaina, ma quelli esprimono fiducia, qui la rassegnazione ha smorzato ogni luce.
Il libro che ha vinto il premio Albatros per la letteratura di viaggio conclude come quello di Francesco, con l’elenco degli strumenti utili all’impresa.
Scriveva Marc Augé: la bicicletta mitica epica utopica, in grado di riconciliare la società con se stessa. È difficile, arrivati a questo punto, non inforcarla.
di Mario Baldoli