Il senso dell’infinito nel magico Altai
febbraio 11, 2020 in Album fotografici da Luigi Errante
«Il piumaggio bianchissimo del rapace era screziato da una pioggia di macchie grigio scuro. Non avevo mai visto un simile animale e chiesi al falconiere di che uccello si trattasse. – Dicono che sua madre venga dalle lande ghiacciate ai confini del mondo – rispose – e suo padre dai deserti dell’Asia centrale, la culla della nostra gente. Due razze diverse, ma abbastanza simili da potersi accoppiare, per poi deporre le uova sulle pendici degli Altai, i Monti d’Oro, che dànno il nome a questa stirpe meticcia».
(Wu Ming, Altai, Einaudi 2009, p. 186)
Leggevo queste righe una decina di anni orsono, gustando l’epilogo delle vicende che avevano avuto inizio con la pubblicazione di Q a firma Luther Blisset.
Già m’era venuta voglia di questi Monti d’oro.
Finalmente quest’anno si presentano occasione e possibilità.
I monti Altai costituiscono una catena che si estende per circa duemila chilometri, interessando differenti frontiere. La parte che visiterò è il suo versante settentrionale, nella provincia del Bajan-Ôlgij, la più occidentale della Mongolia.
Sono particolarmente interessato ad un evento che si svolge ogni anno, tradizionalmente il primo weekend di ottobre, a Sayat Tube, una decina di chilometri dalla cittadina di Ôlgij: il Festival delle aquile. Decine di cacciatori e falconieri che si incontrano per sfidarsi in gare come la caccia con i rapaci, il tiro con l’arco, le corse a cavallo e in cammello.
Dopo un lungo volo, via Istanbul, arrivo a Ulan Bator, capitale della Mongolia.
Pare di piombare tra le pagine dei romanzi di Ian Manook, e mi aspetto di incrociare il commissario Yeruldelgger appena svoltato l’angolo della via dietro l’albergo.
Contraddizione. Non mi sovviene lemma diverso per descrivere il mio incontro con la città.
Un volo interno di circa millecinquecento chilometri mi porta poi a Ôlgij.
Ho modo di apprezzare lo stato rotabile delle rustiche piste e il comfort offerto dai sedili dello UAZ 452, ma gli occhi sono così presi dall’immensità degli spazi, dai colori dell’acqua e delle rocce, dai cieli tersi cui l’assenza di umidità dona indicibili profondità, che è fin troppo facile scordarsi delle giunture doloranti.
Dopo il distretto di Sagsai, il lago Khoton e le incisioni rupestri di Aral Tolgoi nel parco naturale Altai Tavan bogd che, dicono le guide, vanta tra le altre specie la presenza del leopardo delle nevi, è tempo per il Festival delle aquile.
La caccia con le aquile praticata dai nomadi kazaki è un’antichissima attività, a cavallo, utilizzando maestose aquile reali tenute su di un braccio protetto da un guanto in cuoio.
Il rapace può pesare fino ai sette chilogrammi e raggiungere un’apertura alare superiore ai due metri. Il suo addestramento è lungo e impegnativo e il rapporto che si viene a creare tra uomo e animale finisce con divenire molto stretto e duraturo.
La gara consiste in vera e propria sfida di abilità e velocità. Gli uccelli vengono tenuti bendati con un cappuccio e quando il cacciatore avvista una preda questo viene tolto, e l’aquila s’innalza in cielo per poi fiondarsi in picchiata. Alla fine viene eletto il cacciatore con l’aquila più veloce e precisa nella cattura.
Canti e danze tradizionali, cibo grigliato all’aperto e altre gare con cavalli e cammelli fanno da contorno.
Prima di fare ritorno a Ulan Bator e di seguito alle casalinghe latitudini, vago per tre giorni nel grandissimo parco nazionale del Tsambagarav, una regione glaciale sempre collocata nella provincia del Bajan-Ôlgij.
Qui scatto nottetempo, in veloce sortita dalla ger (la iurta) per dare sollievo a un bisogno fisiologico, la foto che chiude il corredo iconico di queste brevi note. Una foto che racchiude tutto il sentimento che riporto a casa da questo viaggio: un senso di infinito.
E come non far propri i versi del Leopardi?
E quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa? Ed io che sono?