Il pisello del Bigio, e altre storie
gennaio 2, 2013 in Satira da Mario Baldoli
La festa era al suo culmine. Il colosso dell’Era fascista, così chiamato da Mussolini quando venne ad inaugurare Piazza Vittoria a Brescia nel 1932, dominava gli sguardi dai suoi 9 metri di altezza, scolpito nel virgineo candore del marmo di Carrara.
La banda della Scala continuava alternava Sole che sorgi libero e giocondo al’inno di Mameli
Intorno il maschione aveva un ampio semicerchio di fascisti provenienti da tutt’Italia che cantavano alalà. All’esterno del cerchio, quasi all’estremità della piazza, un filo sottile di vecchietti con gli occhiali e la testa pelata, un tempo chiamati gli “intellettuali”, teoricamente di sinistra, ognuno con in mano un libro. Erano quelli che avevano sostenuto per decenni che la piazza andava corredata da quell’oggettone bello biotto. Il libro che portavano, fosse I tre moschettieri o I promessi sposi, indicava che la loro era una posizione squisitamente culturale.
Lontano, fuori dalla piazza, qualche scontro fra polizia e studenti, evidentemente così ignoranti da non capire come una piazza, finalmente tornata fascista, era il trionfo del restauro architettonico.
Il maschiaccio, altrimenti detto l’Eroe fascista, si ergeva impavido su una fontana, simbolo forse di un’Italia ormai domata, o di un mondo sottomesso.
Di lui la gente guardava immediatamente il pisello. Era ignobilmente piccolo. Si può ben sostenere che anche gli eroi delle statue greche hanno un bocconcino da nulla, ma, fatti un po’ di conti con la calcolatrice, si comprende bene che un bestione di 9 metri debba avere un pacco in proporzione. Almeno 40 centimetri vogliamo darglieli? Invece, coperto da una fogliuzza, appariva un ingombro che rallegrava il cuore dei maschi presenti.
Ma si trattava, contrariamente a quanto pensavano, solo di uno spostamento: la cospicuità della parte davanti era finita dietro. Due gigantesche chiappe, candidi globi gemelli, muscolosi e ben evidenziati, dominavano il posteriore della statua di Arturo Dazzi che lì dava il meglio di sé.
Seduti al caffè Impero, con un chinotto sul tavolino e la scansia delle chiappe in fronte, ci si sentiva sicuri come in una fortezza: il potere imperiale.
L’ignoranza popolare aveva chiamato quel maschiotto col nome di Lelo (per dire tonto), Picio (per indicare il pacco), Bigio (per indicarne la vuotaggine). Il caffè Impero era detto café de le Ciape, ma insomma, niente poteva scalfire quella splendida folla in camicia nera (la camicia è mia e il colore me lo scelgo io) e le camicie diverse indossate da quegli stitici intellettuali, rivelanti, proprio in esse, le loro sottili divisioni.
Si faceva tardi, il tramonto spariva dietro la testa dell’eroe stingendogli l’aureola che gli aveva disegnato. Arrivò una pioggia leggera, le camicie nere si affrettarono alla stazione, dal bordo della fontana i ragazzini varavano le ultime barchette.
Gli intellettuali avevano indetto una conferenza stampa per l’indomani.
Il programma prevedeva per l’anno successivo il recupero del Mussolini a cavallo.