Il diritto di correggere le donne
marzo 7, 2018 in Approfondimenti, Recensioni da Roberta Basche
La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV-XXI), pubblicato dall’editrice Viella a cura di Simona Feci e Laura Schettini, fa parte della collana di “Storia delle donne e di genere” che nasce dalla collaborazione tra la Società italiana delle storiche e la casa editrice.
Nell’introduzione le curatrici fanno il punto su alcuni tra i temi affrontati nei tredici saggi: il linguaggio utilizzato per descrivere il fenomeno della violenza, il contesto per lo più privato (mogli ma anche figlie e sorelle, costrette a matrimoni e monacazioni forzate, minacciate e punite, maltrattate nei diritti dotali o patrimoniali), la tolleranza delle violenze nel passato supportata dallo ius corrigendi, il diritto di correzione del capofamiglia nei confronti di moglie, figli e delle figure a lui subordinate.
I testi sono organizzati in due aree tematiche: Contesti, Politiche e diritti.
Contesti permette al lettore di affacciarsi in diverse stanze della storia attraverso l’analisi e la contestualizzazione di fatti realmente accaduti dal XV al XIX secolo.
Lucia Ferrante tratta del caso della nobile bolognese Antonia Sanvitale che, a dispetto delle consuetudini, nei primi anni del 1600 denuncia il marito senatore per sevizie e privato carcere. Antonia appartiene ad una famiglia feudataria di Fontanellato e si unisce in matrimonio con Aurelio Dall’Armi. Tale unione vuole rafforzare politicamente la famiglia del senatore grazie alla vicinanza della famiglia di Antonia con la curia romana.
La denuncia della donna scardina le convenzioni. Nelle parole di uno dei testimoni del marito: io non credo che alla Corte sia mai stata fatta querella delle donne che siano state riserrate dalli mariti loro, essendo quando ne fosse stata fatta querella, perché la Corte non l’havrebbe acettata.
Ciò che infastidisce pertanto il senatore è l’onore oltraggiato: una donna si oppone pubblicamente al coniuge accusandolo.
Il marito viene comunque incarcerato poichè il privato carcere, cioè la reclusione della moglie tra le mura domestiche è considerato reato di lesa maestà, turbativa della giurisdizione dei superiori!
Antonia ritornerà a vivere con la famiglia di origine (che la sostiene) e intenterà un altro processo per ottenere la separazione e la restituzione della dote.
Simona Feci affronta il parricidio a Roma, alla luce del ruolo della donna alla fine del Cinquecento soffermandosi su un caso di violenza nei confronti di una madre ad opera dei figli. (sulla scorta del diritto romano, con il termine parricidio si intende l’uccisione di uno qualunque dei propri congiunti, in linea verticale e trasversale fino al quarto grado incluso di consanguineità; a costoro si aggiungono il coniuge ed altri affini): Costanza Santacroce era vedova e nel testamento Giorgio Santacroce aveva disposto che ella fosse usufruttuaria dei beni del marito e autorizzata ad assegnarsi da se stessa alimenti adeguati alla condizione sociale, purchè osservasse condotta casta et onesta e mantenesse lo stato vedovile. Il movente dell’omicidio si può condurre a due ordini di motivazioni. In primis, la madre si opponeva alla condotta dissoluta dell’ultimogenito, dedito al gioco d’azzardo; per il figlio era inaccettabile che una donna vedova lo ostacolasse nel proprio potere economico. L’altra causa fu identificata in seguito all’interrogatorio del primogenito: i figli sostenevano che la madre sessantenne fosse incinta. Entrambi furono condannati alla pena di morte, alla quale l’ultimogenito scampò con la fuga.
Enza Pelleriti e Chiara Stagno ci portano in Sicilia, l’una analizzando il ruolo del poliziotto come intermediario nelle liti e violenze familiari, l’altra mostrando gli stereotipi con i quali vengono rappresentate le donne di mafia. Nel primo caso l’autrice sottolinea come la mediazione nell’Ottocento avesse come scopo non la punizione del colpevole, ma il ritorno ad una situazione di stabilità familiare.
Altro capitolo è dedicato alla violenza nei confronti delle bambine; sono citati due casi occorsi a distanza di un secolo, confrontandoli in relazione ai diversi codici penali vigenti (Codice Leopoldino e Codice Zanardelli). Determinante per considerare l’innocenza delle bambine era quanto conoscevano della sessualità. L’aggressore era scagionato facilmente se le bambine erano “maliziose”. Nonostante siano passati due secoli il rimando che oggi i mass media fanno ai concetti di “pudore” o “moralità” ci avvicina a quella mentalità.
La parte relativa a Politiche e diritti affianca al taglio storico quello giuridico.
I capitoli scritti da Beatrice Pisa e Laura Elisabetta Bossini sono dedicati al Movimento di liberazione della donna, ai femminismi e ai dibattiti sulla legislazione da adottare per contrastare la violenza. Note le battaglie di Tina Lagostena Bassi e Maria Magnani Noya, nei tribunali e in Parlamento. Altre tematiche affrontate sono la violenza sessuale in guerra e la violenza legata al fenomeno migratorio, quale la tratta degli esseri umani.
L’ultimo saggio evidenzia come anche le immagini e le parole utilizzate dai mass media per descrivere le vittime di violenza siano stereotipate; l’attenzione si concentra sulla vittima scandagliandone la vita a fronte di una invisibilità e quindi deresponsabilizzazione del colpevole.
Il volume è rigoroso, con un’abbondante bibliografia, ma accessibile ad ogni lettore.
Uno degli aspetti che le autrici (e l’unico autore) non si stancano di sottolineare è la pervasività della
violenza degli uomini contro le donne: tocca ogni Paese, etnia, religione, livello sociale, livello educativo.
Viene inoltre rimarcata la distinzione che correva nel passato tra sfera pubblica e sfera privata: questa, limitando l’intervento dello Stato all’interno della famiglia, ha ostacolato l’esercizio dei diritti delle donne, unito alla difficoltà di denuncia e al silenzio in cui si rifugiano le donne, all’accettazione del compromesso e alla remissività per il timore di provocare l’uomo.
Scrive Lucia Ferrante: Costa dolore e fatica alle donne, anche nei paesi in cui esistono leggi per tutelarle, denunciare le violenze che subiscono. La dipendenza economica e psicologica, il desiderio di proteggere i figli, la sfiducia nelle istituzioni, la paura di conseguenze non di rado tragiche le costringono spesso al silenzio (…). I dati evidenziano che le aggressioni sessuali sono fra i crimini meno denunciati. E ciò per varie ragioni: su tutte, il sentimento di vergogna provato dalle vittime e il loro complesso di colpevolezza o corresponsabilità rispetto all’aggressore”.
Perché? In gioco vi sono l’autonomia della donna e la sua libertà che ancora oggi sono condizionate da pregiudizi. Alle radici della violenza c’è la società patriarcale che costringe le donne in un ruolo subalterno. Ed è scardinando questa subcultura che si riuscirà a ridurne le dimensioni, rimediando anche alle carenze dello Stato quali la scarsità di rifugi per le donne e la giustizia troppo lenta.
Come scrivono le autrici nell’introduzione “la ricerca storica porta nel dibattito un contributo importante, non solo ai fini di una migliore comprensione del fenomeno, recuperando profondità e complessità del suo farsi nei secoli, ma anche per combatterlo in modo strutturale”.
E’ pertanto auspicabile che “la Storia si faccia maestra di vita”.