Il coltello della baby gang. Nostra intervista al professor Franco Prina
marzo 12, 2021 in Approfondimenti, Interviste da Mario Baldoli
A Napoli alcuni giovani vedono un ragazzo solo e lo uccidono con un coltello colpendolo 12 volte in 12 punti diversi del corpo. Secondo la sentenza del tribunale che li condanna, non hanno un movente, l’hanno ucciso solo perché “normale” con una famiglia normale, la casa, lo studio.
Li ha mossi il disprezzo o l’invidia?
Il lancio di sassi da un cavalcavia sull’autostrada tra il 1986-2002 ha ucciso sei persone. Protagoniste la rabbia, la distruttività gratuita, il piacere immediato e irresponsabile.
A Gallarate, in provincia di Varese, l’8 gennaio, circa cento giovani tra i 14-18 anni, alcuni provenienti anche da Milano, si scontrano con catene e mazze da baseball, un ferito, la polizia li disperde, il Comune indice un’assemblea sul disagio giovanile: “Senza regole o troppi confini?”
Episodi in dimensione minore avvengono tutti i giorni in ogni parte d’Italia.
I mass media parlano indifferentemente di baby gang, nome ad effetto, inganno destinato a suscitare nella gente la convinzione che è legittimo sparare per difendersi in una società in cui anche i bambini, i baby, sono criminali.
Abbiamo chiesto un giudizio approfondito al professor Franco Prina, autore del saggio Gang giovanili. Perchè nascono, chi ne fa parte, come intervenire. Mulino 2019.
Dice il professore: Baby gang è una definizione del tutto sbagliata in uso solo in Italia. Nel nostro caso le parole hanno creato la realtà: gang indica gruppi criminali organizzati con strutture, numero stabile di componenti, attività di grande rilievo. Si dovrebbe scrivere banda urbana, organizzazione di strada, gruppi giovanili di strada, street gang, come in Inghilterra, termini che segnalano il carattere locale, ancorato a un territorio, un insieme mutevole nella composizione. Infatti sono aggregazioni di solito occasionali che agiscono magari come una banda, ma senza esserlo. O vogliamo inventare anche la banda dei tatuati ecc?
Le motivazioni e le dinamiche venute alla ribalta negli ultimi anni non sono una novità: in passato ci sono stati blousons noirs, peaky blinders, victorian boys, teddy boys, youth band. Il cinema ha portato il suo contributo, a partire da Gioventù bruciata.
Il nome del fenomeno banda resta in discussione anche tra gli studiosi, in Italia non c’è nemmeno il reato di banda”.
L’adolescente si trova sempre fra vari fuochi.
In realtà gli adolescenti sono un insieme articolato e differenziato, una terra di mezzo che ha due facce devianti: può essere il ripiegamento che porta alcol, droghe, anoressia o al contrario la violenza, il bullismo, il vandalismo.
Parliamo di adolescenti e giovani (gruppi spesso autocostruitisi nei social) che si muovono nella prospettiva di esprimere in maniera forte e appariscente il proprio esistere, la propria voglia di ribellione. Le dinamiche sono ricorrenti: agire insieme perché così si è più forti, senza paura, si gode il presente che sembra l’unica cosa che conta, il piacere non aspetta. Si diventa protagonisti di qualcosa che attira l’attenzione dei media, ci si posta sugli stessi social per esibirsi sul palcoscenico della città: il grande, vero reality. Si esprime l’estraneità e la rabbia verso le istituzioni, anche con pretesti banali, come l’offesa a uno del gruppo, il voler riprendersi gli spazi del proprio territorio con manifestazioni di esuberanza e aggressività.
Il fattore identitario si definisce nell’incontro e nello scontro tra il “noi” dei ragazzi cresciuti insieme in un certo paese e “gli altri” che sono di un’altra zona o paese, contro i deboli con cui è facile prendersela, oppure i diversi, gli estranei, gli immigrati, si forma “un razzismo istituzionale”, ma anche la fusione con gruppi di immigrati, o la costituzione stessa di gruppi di immigrati.
Quanto il coronavirus ha influenzato questi comportamenti?
La situazione che stiamo vivendo determina pretesti e condizioni difficili. La crisi del covid ha complicato le vite quotidiane dei ragazzi e dei giovani in generale, ma soprattutto di quelli appartenenti alle categorie più deprivate che si sono trovati ancora più in difficoltà, in primo luogo perchè la crisi ha peggiorato la vita nelle loro case spesso inadeguate; poi perchè hanno sentito di più la precarizzazione e la mancanza di prospettive per il futuro.
Il distacco dalla scuola e dai luoghi di aggregazione, dall’associazionismo di quartiere, la privazione della quotidianità, la distruzione dei tempi della giornata e della frequentazione dei coetanei, il distacco dagli adulti, spesso a loro volta precarizzati, dagli insegnanti, spesso gli unici educatori, dagli oratori, dagli scout ha fatto venir meno i riferimenti che rappresentano una difesa dalla solitudine e ha portato alle logiche della strada e in alcuni casi dello sfruttamento.
Diceva Woody Allen: i ricchi hanno problemi, figuriamoci i poveri.
Infatti l’istruzione a distanza ha approfondito la differenza tra le classi sociali, tra i ragazzi sostenuti dai genitori e chi no, chi aveva gli strumenti per seguire le lezioni e chi no. Una demotivazione percepita da coloro che lavorano con ragazzi dei quartieri più poveri delle grandi città, al sud in particolare dove stanno inventando modalità innovative, come i maestri di strada che vanno ad incontrare là dove vivono coloro che stanno abbandonando la scuola per garantire loro una certa continuità didattica, per tenere in equilibrio il loro percorso di crescita.
Per ora si reagisce con la repressione, la tolleranza zero.
Per affrontare il fenomeno, prima di tutto è necessario conoscerlo. Poi occorrono interventi strutturali: arredo urbano, risanamento e riqualificazione del tessuto associativo dei quartieri, riduzione della disoccupazione giovanile, una presenza dello stato anche con le forze armate non mirate alla repressione, ma a segnalare l’ordine soprattutto in spazi pubblici, giardini, centri commerciali.
In Italia, meglio che in altri paesi si cercano per i minorenni autori di reato soluzioni diverse dalla sanzione penale, come l’utilizzo della “messa in prova”. Il piano penale va integrato con misure civili e amministrative, interventi che vanno anche pensati con i destinatari. Sono necessari anche la prevenzione e il sostegno familiare da parte di operatori qualificati per costruire la possibilità dei ragazzi di confrontarsi con adulti “solidi”. Di un adolescente va visualizzata la positività invece dei dinieghi, riscoperta l’utilità del gioco, dello sport. Sappiamo che con la crescita subentra consapevolezza, che la ribellione giovanile tende a decrescere.
In sintesi, un investimento nelle politiche rieducative e sociali, un volontario o una famiglia che diventano tutore di un ragazzo, un artigiano che insegna un mestiere, qualcuno che sappia istituire una relazione di fiducia con lui.
di Mario Baldoli