Il blu di Persia è il canto del blues
giugno 30, 2024 in Persia, Recensioni da Mario Baldoli
Un ballo triste e nel contempo scatenato, il blues, e un blu che lo interseca, ma nell’incontrarlo libera la forza che unifica il mosaico e lo fa suonare come suona un blues.
La psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour, nata a Parigi, prima residente in Canada, ora tornata a Teheran, ha scritto un libro che già nel titolo, come nell’insieme del libro, è una sinestesia: Blues a Teheran, la psicoanalisi e il lutto, ed. Raffaello Cortina.
Un libro scritto nel blu: blues e blu, scrive l’autrice. Il blu di Persia dall’azzurro all’indaco, un colore che dal chiaro sfocia nelle gamme scure, frequente nelle moschee e nei palazzi, e il blues che nasce dal profondo Sud americano, dal canto degli schiavi condotti in America, canto di dolore, ma anche energico, come la canzone di Duke Ellington Blues di Isfahan, la città più bella dell’Iran, un’antica capitale.
Guardare dentro il blu, il colore che ha il sapore del coraggio, di una forza indomata che fa vibrare l’energia della rivolta delle donne contro il velo, che ricorda il lutto di dieci anni di guerra tra Iran e Irak, la più sanguinosa del II Novecento con circa 200.000 morti quasi tutti bambini e civili. Ma il blu è anche ciò che la psicoanalisi mette in luce: l’ambivalenza, eros e thanatos, da un lato il canto degli schiavi, dall’altro la bellezza dell’arte.
A Teheran Gohar Homayounpour esercita (a suo rischio e pericolo di frustate) la professione di psicoanalista, una scienza che ha sempre affascinato l’Iran, dove Freud è stato tradotto prima che in Francia e dove lei ha fondato un gruppo che ha 250 seguaci.
Gohar ci parla della morte del padre, il tema che percorre quasi invisibile tutto il libro, e subito affronta un nodo del sistema freudiano, il principio del piacere e quello di realtà. Sostiene che il principio di realtà non è in contrasto con quello del piacere, anzi il principio di realtà si raggiunge attraverso quello del piacere. Nel piacere primario siamo fusi con la madre, ma quando ci toglie dal seno, la frustrazione ci fa approdare al principio di realtà e scopriamo il tempo e lo spazio.
(Ma su tempo e spazio, in un senso filosofico che si può collegare a quello psicologico, Agostino e Kant hanno detto forse la parola definitiva).
È il primo accenno di separazione che intacca il nostro narcisismo.
Poco dopo arrivano altre ferite col complesso di Edipo attraverso cui scopriamo il piacere dilazionato e approdiamo così al principio di realtà. Questo nella persona sana, in cui avviene la separazione dalla madre. Al contrario soffrono invece i figli delle madri troppo coinvolte: la negazione della realtà li porta alla melanconia, alla regressione e fa nascere una schiavitù. Una melanconia patologica che non è il lutto per la perdita di qualcuno, ma svuota l’Io stesso.
È necessario conoscere e capire la separatezza Bambino-genitore, solo essa provoca un’empatia sincera.
Il saggio è un racconto per frammenti che si snoda piacevolmente attraverso gli esempi più vari, come stendere sul lettino in un’immaginaria cura la poeta più grande del primo Novecento, Forough Farrokzad, e cogliere nella sua morte a 32 anni, un incidente scelto- secondo Gohar – non solo per non finire contro un autobus di studenti, ma per quel senso di nuda morte che le sue ultime poesie sembrano preparare.
Forough è morta nel 1962 e a 32 anni e fa ancora parte dell’immaginario iraniano. Gohar si chiede: se l’avessi analizzata?
Forough si sentiva sempre in colpa perché aveva lasciato il figlio al padre, ha girato il cortometraggio La casa è nera su una comunità di lebbrosi, lei stessa si sentiva una magnifica lebbrosa, tentò due volte il suicidio. Gohar dice che nella sua melanconia c’è sempre del narcisismo. È senz’altro vero, ma Forough percorse molte strade: il teatro dove recitò in Sei personaggi in cerca d’autore, il cinema, i viaggi, le molte letture, una poesia nuova. La sua melanconia sapeva dunque sublimarsi nell’arte, io credo.
Un altro suggestivo punto di domanda: la psicoanalisi può variare secondo le latitudini? A fianco del complesso di Edipo esiste in Iran un complesso di Sherazade? La giovane che attraverso racconti che durano Mille e una notte libera con le sue parole il re dalla malattia oscura che lo spingeva ad uccidere tutte le donne. Le parole possono liberare, ma quanto narcisismo c’è in quella storia alla fine della quale Sherazade ha partorito tre figli maschi? Il narcisismo è un elemento che abita l’individuo e lo rende incapace di affrontare quella realtà che la psicoanalisi, in questo caso la parola, va a stanare proprio nella sua ambivalenza.
E tutte le risposte confluiscono nella dimostrazione della forza di una narrazione femminile che con garbo e savoir-faire può diventare la contro-narrazione di un paese, l’Iran, che nasconde la sua energia rivoluzionaria sotto un velo che cela tutto e tutto lascia intendere.
Un Paese che rifiuta l’umanesimo “occidentale” del nostro tempo, un umanesimo brutalmente morale che ha perso il senso dell’ironia sostituendolo con il nuovo autoritarismo del politically correct. Usando un dogma feroce, non più psicoanalitico: devi dirmi tutto.
Fra i racconti che sferrano colpi indimenticabili ai più vari stereotipi geopolitici, forse vince tra tutti quello di un pranzo tra “una saudita, un’israeliana e un’iraniana” che sembra l’inizio di una barzelletta: tre amiche e madri i cui i paesi sono stati in guerra. Le tre si ritrovano per un pranzo durante il quale l’amica israeliana confessa alle altre due di essere sollevata dal fatto che i suoi tre figli maschi preferiscano la prigione all’arruolamento nell’esercito e scelgano questa via per opporsi alla violenza. L’altra, l’amica saudita, rovescia il mito della maternità della quale attacca gli aspetti più indigeribili, ammette di alzare troppo spesso la voce con i figli, di provare il desiderio di abbandonarli, di essere rimasta sconvolta dalle trasformazioni del suo corpo in gravidanza. Poi commentano l’aspetto ambivalente del quale non si parla quasi mai: le gioie e gli orrori dell’allattamento, il tutto mentre bevono vino senza moderazione.
Homayounpour racconta vari aneddoti della sua vita e di chi le sta accanto con la leggerezza scaltra e intelligente, profonda e riflessiva della psicanalista la quale, con una fiduciosa amicizia costringe chi legge a guardarsi dentro per domandarsi: “anch’io la penso così?”, “anch’io sono vittima di stereotipi e convenzioni sociali”? Ma alla fine, riemerge in lei il ricordo del padre morto e della missione che lei sta compiendo, come volesse ripetere la sua presenza, e allora ho la sensazione che il suo libro sia, nelle forme più varie, l’elaborazione di un suo lutto, la risposta a quel desiderio di morte che Freud ha trovato in ciascuno di noi.
di Mario Baldoli