I resistenti della Ghost Town a Brescia
febbraio 27, 2014 in Approfondimenti, Palestina da Beatrice Orini
Disponibile in traduzione inglese di Anna Zorzi
“Attraversare Shuhada Street e conoscere la sconvolgente realtà di Hebron è stato scioccante: mi sono sentita davvero impotente. La gente palestinese che ho incontrato mi ha fatto notare che potevo, però, fare qualcosa di importante per loro: tornare a casa e raccontare quello che avevo visto nel mio viaggio”. Così Sonia Trovato, direttrice editoriale della rivista Gruppo 2009 e organizzatrice dell’evento, spiega com’è nata l’idea della serata informativa sull’apartheid di Hebron (Al Khalil in arabo) e la chiusura di Shuhada Street, tenutasi lunedì presso la Casa del Popolo di via Risorgimento, a Urago Mella.
L’iniziativa – promossa a livello nazionale da Assopace Palestina e a Brescia dall’Associazione Amicizia Italia-Palestina Brescia e Gruppo 2009, con la collaborazione di diverse realtà bresciane (Anpi Brescia, Arci, Cgil-Camera del lavoro, Circolo arci Colori e Sapori, Fondazione Guido Piccini) – ha visto come protagonisti Izzat Karaki e Jawad Abu Aisha, rappresentanti dell’organizzazione non violenta di Hebron Youth Against Settlements (YAS). L’obiettivo, capire come la segregazione imposta da Israele con la chiusura di Shuhada Street sconvolga la quotidianità degli abitanti palestinesi. Una chiusura – ricorda Sonia – “imposta dalle autorità israeliane per garantire protezione ai coloni, proprio dopo che un colono si fece responsabile, nel 1994, del massacro di palestinesi riuniti in preghiera nella moschea di Abramo. Di fatto, oggi seicento coloni hanno il controllo della città vecchia e comandano, difesi dall’esercito, su una popolazione di 20 mila palestinesi”.
Prima delle testimonianze degli ospiti, tradotte da Iyas Ashkar, il video della giornalista Livia Parisi mostra la sconcertante normalità di Hebron: una strada deserta e desolante, edifici a pezzi, le case palestinesi protette da grate per bloccare le pietre e i rifiuti lanciati dall’insediamento illegale israeliano posto proprio sopra; le continue provocazioni dei coloni, la forte e violenta presenza militare, la paura dei palestinesi, ma anche la loro coraggiosa e pacifica resistenza: “Le telecamere sono le nostre pistole”, afferma una giovane volontaria nel video, mentre un altro intervistato assicura: “I palestinesi non accetteranno mai quest’occupazione”.
“L’unica strada possibile per noi è la resistenza non violenta”, conferma l’ospite della serata Izzat Karaki, da anni volontario per la YAS: “Siamo un gruppo di giovani apartitico che lavora su progetti – spiega –: innanzitutto, documentiamo tutto quello che fanno i coloni, per denunciare e tentare di avere ragione di fronte alla giustizia; insegniamo inglese ai giovani per poter interagire con la comunità internazionale e ebraico alle donne perché possano comunicare con i soldati israeliani quando fanno irruzione nelle loro case; aiutiamo la gente con lavori piccoli ma di grande importanza. Per i bambini abbiamo inoltre creato un asilo nido gratuito in Shuhada Street, ristrutturando una casa pericolante, nonostante i ripetuti blocchi da parte dell’esercito”.
Jawad Abu Aisha mostra quindi un video girato recentemente dall’associazione: decine di soldati che si scagliano contro un solo volontario, il fermo senza ragione di un’ambulanza che segnerà la morte di un’anziana, perquisizioni notturne nelle case, continui arresti di volontari locali e stranieri, di abitanti, ma soprattutto di bambini e ragazzi. “Il 2013 – afferma infatti Jawad – è stato un anno caratterizzato da troppi arresti di minori: prenderli di mira significa terrorizzarli e spingere le loro famiglie a scappare lasciando le abitazioni, per fare sempre più spazio ai coloni”.
Jawad, nato in una zona ora occupata, ha visto l’officina del padre, in cui lavoravano anche lui e il fratello, chiudere senza motivo nel 2000 e ha vissuto tutte le fasi dell’occupazione. Racconta delle tattiche usate dai soldati per confiscare case e scippare interi quartieri e ricorda l’eccezionalità della situazione di Hebron, l’unica città in Cisgiordania dove gli insediamenti israeliani (“settlements”) sono proprio all’interno del centro storico.
“Vivere i momenti di violenza non è come guardarli dallo schermo” conclude Jawad: “Siamo venuti fin qui per testimoniare e invitare tutti gli amanti della libertà a supportarci”. In che modo? “Venendoci a trovare – risponde l’ospite – magari soggiornando nelle nostre case, che è anche un’occasione per renderle più sicure. Oppure facendo una donazione alla nostra associazione”. La sede degli attivisti di YAS si trova sulla collina di Tel Rumeida di fronte a un insediamento israeliano sorvegliato 24 ore su 24 dall’esercito. Nonostante ciò, sul tetto sventola fiera la bandiera palestinese, unica in tutta la Ghost Town, la città fantasma.