I promotori del sorriso in Africa
giugno 22, 2013 in Approfondimenti da Roberto D'Ambrogio
“Andiamo in Africa a far volontariato?” Questa la domanda che ponemmo l’un l’altro, quasi simultaneamente, una sera dello scorso novembre, io e Federico Marsili, amici dentisti.
Il viaggio esotico, l’esperienza umanitaria, l’avventura da vivere e raccontare: queste le motivazioni che fecero sorgere dentro di noi l’idea, divenuta presto necessità. A frenarci, invece, gli eventuali rischi, come la possibilità di contrarre malattie abbastanza serie o incorrere in situazioni pericolose. A trattenerci più di tutto era però un altro pensiero: “Quanto utile può essere l’impegno di due sole persone, in quella complessità di territori e situazioni che è l’Africa?”.
Decidemmo di scoprirlo provandosi e contattammo una piccola associazione di laici fondata da Elsa, sorella di Padre Peppino Rabbiosi, missionario comboniano dal 1974. Restammo subito contagiati dal loro entusiasmo e stupiti dalla realtà costruita grazie al loro impegno: L’associazione – ci spiegarono – nacque dodici anni fa, quando decidemmo di costruire una piccola casa-accoglienza per strappare a morte sicura i bambini senza genitori né parenti in cui Padre Peppino si imbatteva durante la sua missione, in quella regione povera e decentrata di Abor, tra il Ghana e il Togo. La struttura, negli anni, si ingrandì con nuovi edifici e una scuola, grazie alle raccolte di fondi in due piccoli centri italiani, Colico e Angolo Terme, e alla generosità di tanti cittadini. Il progetto andò avanti, crescendo sempre più: i bambini frequentavano le scuole medie, superiori e talvolta l’università, qualcuno poi tornava al villaggio-orfanotrofio che li aveva cresciuti. Alcuni venivano assunti come insegnanti o autisti o meccanici, le ragazze magari come levatrici, educatrici, cuoche. I bambini continuarono a crescere, tanto che i volontari italiani costruivano ogni anno nuovi locali: una scuola elementare e una media, altri dormitori, una cucina, bagni, docce, un’infermeria, una falegnameria, un’officina di tornitura, una biblioteca, una autofficina. Oggi ci sono centocinquanta bambini in pianta stabile e altri duecento che studiano e vivono all’interno della casa durante la settimana e tornano nei villaggi nel weekend.
Dopo aver ascoltato la storia del centro In My Father House, io e Federico eravamo più che convinti: eravamo conquistati. Pianificammo rapidamente gli incontri con i responsabili delle strutture sanitarie locali (quasi sempre rette solo da infermiere, i medici scarseggiano) e cercammo di capire come essere utili: l’istruzione e la prevenzione a tappeto delle malattie orali in scuole e villaggi, la cura dei casi più urgenti, lo studio per l’installazione di un ambulatorio dentistico, poiché non esiste un dentista nel raggio di sessanta chilometri. E ancora, uno screening a tappeto per capire la prevalenza delle patologie orali e indirizzare nella maniera più fruttuosa gli sforzi futuri.
Arrivò l’ora di volare – pieni di farmaci e strumentario – verso l’Africa, che salutammo con l’animo colmo di determinazione e qualche paura. I timori, però, lasciarono subito il posto allo stupore. Noi “promotori del sorriso” imparavamo dai bambini a sorridere. Noi che eravamo andati a curare, venivamo a nostra volta curati dall’apatia e dai finti affanni di un mondo fatto di necessità non necessarie. Ed ecco susseguirsi visite e sorrisi, battute e punti di sutura, tamburi e antibiotici in un mix dal sapore tutto nuovo, tanto intenso da farsi commovente. Come la festa per la nostra partenza, per un addio che tutti ci auguravamo essere solo un arrivederci.
Questi i risultati in dieci giorni: 2000 visite, 170 terapie, attività di prevenzione in quattro villaggi e sei scuole. Dovunque, efficienza e spirito forte.
Dal nostro ritorno, due sentimenti non ci abbandonano più: la nostalgia per l’Africa e la consapevolezza di aver dato poco in confronto a quanto ricevuto. Non solo: anche la convinzione che le azioni di un singolo uomo possano fare tantissimo. Senza Padre Peppino, che cominciò tutto, tante vite infatti si sarebbero interrotte. Senza l’impegno dei volontari, chissà come starebbero le persone che ora coltivano, riparano, insegnano o medicano. Anch’io e Federico oggi saremmo diversi, se non avessimo conosciuto, a febbraio scorsa, quella regione povera e decentrata di nome Abor, tra il Ghana e il Togo.