I macabri gusti degli adolescenti spiegati da un’adolescente
aprile 13, 2018 in Approfondimenti, Letteratura da Giulia Mazzon
“Un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che abbiamo dentro.”
La prima volta che lessi questa frase non la capii subito. Mi rimase bloccata in testa, facendomi perdere il sonno per cercare di trovarne il senso. Con il passare del tempo, ovviamente, capii a cosa si riferisse. Un’occasione particolare durante la quale non riuscivo a levarmela dalla testa fu in classe, nell’ora di italiano, quando la professoressa ci chiese perché noi adolescenti avessimo gusti così macabri. La mia memoria si mise in moto, facendo accendere mille allarmi, e tutti puntavano a questa frase che avevo trovato da qualche parte su Instagram. Di colpo assunse un significato enorme.
Non si poteva dare torto all’insegnante, quel giorno, e meno di tutti potevo farlo io: se avessi dovuto scrivere una storia con i protagonisti dei tre libri letti durante le vacanze estive – “Oscar e la dama in rosa” (edizioni e/o), “Io e te” (Einaudi), e “Revival” (Sperling & Kupfer) – avrei una trama sviluppata intorno ad un eroinomane, un pazzo fissato con l’elettricità, un bambino malato di cancro e un adolescente con un disturbo narcisistico della personalità. Potrei ambientare il tutto in una clinica, insomma.
Iniziai a pensare molto a quella domanda: perché gli scaffali della mia libreria erano così pieni di storie su adolescenti che si sentono fuori posto, fantasy alla cui fine i personaggi muoiono dopo aver patito enormi sofferenze e racconti di persone che soffrono da impazzire mentre viaggiano per l’universo, sentendo che il nostro mondo è troppo stretto per loro o che non è il loro posto? Me lo domandai di nuovo mentre leggevo l’enorme libro comprato in libreria il giorno prima, “La figlia di Odino” (Multiplayer Edizioni). Arrivai al paragrafo in cui la protagonista raccontava di come suo padre era finito in sedia a rotelle e quasi istintivamente mi sfiorai le ginocchia, riflettendo su quanto fossi fortunata ad essere in grado di camminare, e in quel momento trovai la prima delle numerose risposte alla domanda della professoressa: la gratitudine. Leggere tutte quelle pagine su ragazzi con problemi impossibili, che devono combattere ogni secondo per la loro vita e che hanno perso tutto e tutti, insegna davvero ad apprezzare ogni secondo in cui si respira, ogni abbraccio con i propri genitori o con i propri amici, ogni raggio di sole che sfiora la pelle. Notai che crescendo, man mano che i miei gusti cambiavano, mentre leggevo queste storie che lasciavano una cicatrice sul mio cuore per tutto la sofferenza che portavano, io iniziavo ad apprezzare la vita, tutto ciò che avevo, ogni cosa bella che mi fosse mai capitata.
Un’altra ragione, per me, era anche il coraggio, quella sensazione di forza che ti pervade ogni volta che riesci in qualcosa da cui eri spaventato. Nel mio caso mi bastava pensare a come, dopo aver visto la serie di “supernatural” e tutto ciò che hanno affrontato i protagonisti, mi sono fatta coraggio e per la prima volta ho spento la luce per andare a dormire. Una cosa piccola, ma non insignificante. Non per me almeno.
La terza ragione era il bisogno di scappare: la voglia di fuggire per cercare qualcosa di più, per trovare un posto in cui potersi sentire parte di qualcosa. I libri che leggiamo noi ragazzi non parlano solo di dolore. C’è molto di più. Ci sono avventure, storie d’amore, battaglie, emozioni mai provate prima, amici e nemici, magia, creature fantastiche, poteri e esseri sovrannaturali. E cos’è un po’ di dolore in confronto a tutte le sensazioni che si provano leggendo? Se il prezzo per entrare in un nuovo mondo è soffrire un po’, non ne vale forse la pena?
La quarta era la mancanza di emozioni. In un mondo adolescenziale in cui ragazzini apatici si interessano solo di apparenze e un “mi piace” vale più di un abbraccio, è davvero così strano che dei ragazzi vogliano trovare rifugio in un libro? E’ così strano che, pur di provare qualcosa, siano disposti ad accettare enormi dolori invece di cercare storie felici?
La quinta era che, con tutti gli avvenimenti terrificanti che avvengono ai giorni nostri e che troviamo regolarmente su giornali e notiziari, non è forse normale che i ragazzi restino impassibili e non si sorprendano più di nulla, che vogliano sempre di più, cercando quindi di superare il sottile confine tra “triste” e “macabro”? In una realtà così spaventosa, come si capisce cosa è “troppo”?
La sesta è, a mio parere, il fatto che molto spesso una cosa triste è più facile da ricordare di una felice. Questo non fa di queste storie raccapriccianti delle asce migliori per il mare ghiacciato dei ragazzini?