Grammatica studentesca della fantasia – Introduzione
settembre 14, 2014 in Grammatica studentesca della fantasia da Sonia Trovato
Un rumore di pioggia scrosciante, le ginocchia tremanti e un centinaio di occhi incuriositi puntati addosso. È questo il ricordo, nitido e indelebile, del mio primo giorno da “insegnante” all’Università di Verona.
Lunedì 28 aprile 2014, alle ore 17.20, ho infatti varcato la soglia di un’aula universitaria andandomi, per la prima volta, a sedere dall’altra parte, dietro un banchetto sgangherato adibito a cattedra. Nei pochi secondi in cui le mie gambe terrorizzate mi hanno condotta dal corridoio alla stanza che avrebbe sancito il mio definitivo abbandono del titolo di “studente”, credo di aver pensato che la frase “ma chi me l’ha fatto fare?!” non potesse, in precedenza, essere stata invocata così ossessivamente da un essere umano. Già, chi me l’aveva fatto fare? Chi o che cosa mi aveva convinta a presentarmi, in qualità di dottoranda presso il medesimo ateneo, al colloquio per svolgere un corso da 36 ore di “Composizione italiana”, corso che sarebbe dovuto partire neanche una ventina di giorni dopo? Chi o che cosa mi aveva fatto credere di essere capace di pronunciare un discorso di senso compiuto per due ore, per quattro giorni a settimana, per un mese e mezzo, quando le mie uniche esperienze d’insegnamento erano le lezioni private e una cosuccia di neanche un’ora nel mio vecchio liceo? Chi o che cosa mi aveva fatto digerire l’idea che il periodo più felice della mia esistenza, quel periodo universitario che, sebbene terminato da due anni, ancora rimpiango con struggente malinconia, potesse essere rivissuto ma dall’altra parte? Nel sistema di pensiero idealista, categorico un po’ schematico dei vent’anni, quella è la parte di chi sa tutto e di chi dice tutto con granitica sicurezza, e io non possedevo e non possiedo né l’uno né l’altro requisito.
Dunque, chi o che cosa me l’aveva fatto fare?! Il mio tutor di dottorato? L’assegno con il quale pensavo di trascorrere un’estate da nababba (e che invece non ho ancora ricevuto)? Il “fa curriculum”, questo odioso mantra con il quale la mia generazione è ricattata ogni giorno e non può permettersi di rifiutare nulla perché “c’è la crisi” e perché altrimenti si sente dire che “i giovani d’oggi sono tutti bamboccioni e choosy”? Non sarà stata, piuttosto, un’ostinata e un po’ masochistica tendenza a volermi buttare, in apnea, in situazioni quasi impossibili e di dichiarato stress, per poi assaporare il momento della risalita e della ritrovata libertà?
Senza che nessuna di queste possibili spiegazioni sia riuscita ad avere la meglio e senza quasi rendermene conto, ero dentro. Il chiacchiericcio si è placato, mi sono seduta, ho alzato la testa e ho visto loro: una cinquantina o più di studenti, chi seduto ai tavoli e chi in terra. Sulla maggior parte dei loro volti mi è sembrato di leggere un allietato stupore, come se avessi momentaneamente occupato il posto della professoressa per farne qualche comica imitazione prima del suo arrivo. Questa, almeno, è la convinzione scaturita dall’altissimo livello di paranoia/panico del momento (ed è, dopotutto, una sensazione che si è replicata in diversi modi nelle settimane a seguire. Quando, ad esempio, una mattina sono andata a informare un ausiliare del microfono rotto, dopo il suo “Chi è il professore?” e il mio “Sono io!”, ho distintamente colto l’espressione incredula e un po’ allarmata del mio interlocutore, che avrà pensato di avere a che fare con una mitomane).
In ogni caso, con loro ho passato un intensissimo mese e mezzo, e quando non ero con loro lavoravo per loro, cercando, nel poco tempo a disposizione, di mettere insieme delle lezioni che avessero un barlume di piacevolezza e che evitassero epidemie endemiche di noia e di sonno. Ho alternato momenti di amore folle a momenti di odio profondo, e durante questi ultimi arrivavo a dirmi che, prima di divulgare le loro utopie su un’istruzione meno autoritaria, Don Milani e Vittorino Andreoli avrebbero dovuto compiere il proprio battesimo da insegnanti in una classe di matricole esagitate e pronte a ridacchiare su ogni più piccolo errore o lapsus o dimenticanza del poveretto/a in cattedra. Ho alternato momenti in cui rischiavo di elemosinare l’aiuto dei passanti a momenti in cui avrei ingaggiato un sicario contro chiunque osasse esprimere opinioni più o meno richieste sul contenuto del corso. Qui, un piccolo repertorio delle più urticanti: Perché le Lezioni americane di Calvino? Dopotutto è un corso di “Composizione italiana”, non di letteratura contemporanea (certo, dopotutto le Lezioni americane sono “soltanto” una guida ideale sui valori letterari da conservare nel nuovo millennio, e noi siamo nel nuovo millennio e dobbiamo riflettere proprio sulla scrittura). Perché Melville, Rilke e Carver, se il corso è di Composizione italiana? (ma infatti, e perché non riportare in vita Gentile e non ripristinare l’autarchia culturale?). Perché affrontare anche il giornalismo, visto che sono studenti di Lettere e non di Scienze della comunicazione? (come se dei laureati, ancor più di discipline umanistiche, potessero permettersi di non sapere nulla dell’editoria del proprio Paese e di non essere in grado di comprendere un articolo di giornale).
Ora che sono uscita dal periodo di apnea, ripenso con gioia anche ai momenti di potenziale strangolamento e posso dire di essermi divertita. Mi sono divertita a inventare tracce fantasiose e divertenti per le prove di scrittura svolte durante il corso e, ancor di più, mi sono divertita a correggerle e a constatare quanto sia ingiusta la vulgata che dipinge gli attuali studenti come tutti, indistintamente, ignoranti, disinteressati e disabituati alla lettura e alla scrittura. Mi sono divertita a incontrarli al bar e nei corridoi e trovarli titubanti sulla formula di saluto, visto l’esiguissimo scarto d’età (alcuni, nel dubbio, fingevano di non vedermi, ma capivo che era per imbarazzo e non per maleducazione). Ancora, mi sono divertita a memorizzare gran parte dei loro nomi, provando a sfatare un altro mito del sistema di pensiero idealista, categorico e un po’ schematico dei miei vent’anni, l’idea, cioè, che per un professore universitario non faccia una gran differenza rivolgere le proprie orazioni a persone in carne ed ossa o a fantocci imbottiti di paglia.
Ma ho scritto troppo, dato che questa rubrica è per loro, non per me. È per dare spazio alla loro Grammatica della fantasia, titolo di un celeberrimo saggio infantile di Gianni Rodari che, a lezione, abbiamo provato ad applicare ai classici della letteratura. Come le fiabe per bambini, i classici non vanno trattati con ossequiosa riverenza e venerazione, come se fossero delle autorità inavvicinabili. Perché se i classici, parafrasando Calvino, sono libri che non esauriscono mai il loro messaggio, instaurando però un rapporto personalissimo con ogni lettore, allora anche con i classici ci si può divertire, e si può, ad esempio, far incontrare l’Angelica ariostesca con il Renzo manzoniano; si può trattare Dante come uno scrittore alle prese con un’acuta crisi di mezza età, o immaginare che Beatrice, stufa del proprio ruolo di donna-angelo, decida di piantare in asso il proprio poeta cantore e di fuggire con l’attempato Virgilio. Questa rubrica ospiterà i più riusciti esperimenti narrativi, giornalistici e saggistici scritti dagli studenti in sede d’esame e ci terrà compagnia per molte, moltissime settimane. Il primo appuntamento sarà lunedì prossimo, con l’inedita e libertina Beatrice raccontata da Chiara Gaspari.
Le immagini in copertina e nell’articolo raffigurano la dolcissima Matilde di Roald Dahl, una delle lettrici più precoci e più bulimiche della storia della letteratura. Mi sembra di buon auspicio avviare la rubrica sotto la sua ala protettrice.