Fumo sulla città: la crisi dell’Ilva e la morte di Taranto
luglio 13, 2013 in Recensioni da Luca Morselli
Quando nella “calda estate” del 2012 Alessandro Leogrande, giornalista tarantino vicedirettore de Lo Straniero, seguì in prima persona la vicenda del sequestro dell’Ilva, si ricordò delle inchieste svolte quando ancora era ventenne, e indagava, studiava e scriveva sui mali di Taranto, assurta a emblema sociale e economico dell’Italia intera. Fumo sulla città (Fandango, pp. 270, 2013), edito poche settimane fa, copre un arco temporale che va dal 1992, quando Giancarlo Cito, ex picchiatore fascista, viene eletto sindaco della città ionica fino, appunto, al luglio 2012, mesi in cui i giudici dispongono il sequestro della più grande acciaieria d’Europa. Le motivazioni giudiziarie del conseguente arresto di alcuni componenti della famiglia proprietaria dell’impianto, i Riva, accusati di associazione a delinquere e danno ambientale, sono gravissime: sversamento nei cieli e nei mari di migliaia di tonnellate di diossina e di mercurio per oltre un quindicennio. L’autore, già noto per memorabili saggi come Uomini e caporali e Naufragio, individua nella progressiva crisi civile, politica e economica di Taranto l’immagine del decadimento della nazione, vi ritrova gli embrioni di una caduta verticale della qualità della vita e dei diritti, come se l’antichissima città del Mediterraneo fosse stata un esperimento in scala ridotta, prima di allargarsi e diffondersi nel resto del suolo italico.
La prima parte del libro è dedicata all’irresistibile parabola, come dicevamo, di Giancarlo Cito: losca e rozza figura proveniente dalle frange più violente del fu Msi, capace di impossessarsi nei primi anni ’90 di At6, un network di reti addette a televendite e soft porn notturni, seguitissimo nella città e nelle zone limitrofe. Un precursore, che la trasforma nel suo palcoscenico personale da cui lanciare invettive contro la classe dirigente concittadina, inetta di fronte al deflusso di commesse e di ricchezza che sembra aver colpito la città. La crescente fama e celebrità vengono tradotte, nel volgere di pochi anni, in consenso politico, e At6 da emittente televisiva diventa un cartello di liste elettorali, guidato dal suo padre-padrone che arriverà a conquistare la massima carica cittadina. Da qui Cito costruisce un complicato e inarrestabile sistema di clientele, tangenti, rapporti mafiosi, appalti pubblici che ingrassano lui e la sua corte di fedelissimi senza limiti e senza opposizione, fino al farsesco e triste epilogo finale: l’arresto, suo e di alcuni suoi soci, per concorso esterno in associazione mafiosa. Una storia italiana.
Negli stessi anni Taranto assiste alla “privatizzazione” dell’Italsider, acciaieria di proprietà dello Stato e gestita dall’Iri, con a capo il futuro ex premier Romano Prodi, che vende il colosso siderurgico alla famiglia Riva. Nasce l’Ilva, macina guadagni, accresce i redditi degli abitanti in maniera esponenziale, finendo per drogare il tessuto economico cittadino, per avvelenare l’aria e l’acqua e attentare alla salute di chi vive nei quartieri più vicini ai suoi altiforni. Protetta da omertà, mancati controlli, paura di perdere l’unico lavoro di quella terra, l’acciaieria prospera, al prezzo della scomparsa della vecchia città e della comunità tarantina, fino al luglio scorso. Ora, finita la sbornia, rimane il declino della città che ospita la fabbrica, reso ancora più macabro e irreparabile dall’esplosione di tumori che ha colpito la popolazione.
L’impianto industriale era stato avviato negli anni Sessanta per volontà del governo italiano a caratura democristiana: uno dei tanti interventi pubblici che avrebbero dovuto essere il volano per la crescita dell’economia del Sud e che invece si sono trasformati in un pozzo nero di commesse pilotate, mazzette, sprechi, inganni e furberie; intere generazioni “comprate” con stipendi e posti fissi che garantivano un sicuro ritorno elettorale. Quando si pensa all’Ilva infatti, non bisogna considerare solo i ricavi diretti dalle vendite dell’acciaio, ma anche e soprattutto l’enorme indotto delle medio-piccole aziende circostanti, vissute all’ombra del Moloch e cresciute come funghi, accompagnate da un inurbamento incontrollato generato dal proliferare dell’Italsider prima e dell’Ilva poi.
In perfetto stile italiano, non c’è stato un piano a lungo termine, né urbanistico né culturale, che si è tradotto nella totale negligenza di fronte al massacro ambientale perpetrato dalla famiglia Riva, cui ha posto parziale freno e rimedio – è storia della scorsa estate – la magistratura, la quale però può intervenire solo quando il reato è già stato commesso, cioè troppo tardi, e cui non spetta certo il compito di pensare la riconversione industriale o di avviare un piano di risanamento ambientale. Come individuare e costruire ora nuove forme di lavoro che possano assorbire le migliaia di dipendenti che l’Ilva, una volta esplosa la crisi e finito il tempo di vacche grasse, ha cominciato a espellere come un organismo malato e satollo? Il fumo nero che sale dalla città, scrive Alessandro Leogrande nelle ultime pagine, si presenta come un presagio di morte e un’impossibile rinascita.