Francofonia, l’elegia firmata da Sokurov
gennaio 10, 2017 in Cinema da Marco Castelli
“Dovremo navigare per sempre e vivere per sempre” sussurra Sokurov davanti alla Neva, agitata ed infinita come un mare, che circonda l’Hermitage negli ultimi fotogrammi di Arca Russa e quasi idealmente sembra ripartire da quell’affermazione il regista che – all’inizio di Francofonia – prova a chiamare un suo amico capitano della marina mercantile, un amico che, come gli altri personaggi del film, ha continuato a vivere, a navigare, nelle intemperie della storia, che si susseguono come le onde dell’oceano: tutte uguali e ciascuna con una propria voce.
Il film, presentato a Venezia nel 2015 e co-prodotto dal Museo del Louvre, è un’elegia – una delle tante che hanno costellato la carriera del regista russo – nella quale Sokurov prosegue nella ricerca di un linguaggio filmico che possa instaurare un rapporto diretto tra la storia, il protagonista-regista e, per suo tramite, gli spettatori. Per riscoprire il senso di una storia che per Sokurov non è un passato indefinito che va riscoperto tramite un’attività archeologica, ma è invece “qualcosa sotto i nostri piedi, e basta scavare per trovarlo”[1].
A questa silenziosa presenza-resistenza del passato nel presente che il regista prova ad adattare la tecnica cinematografica e infatti, se una delle caratteristiche più apprezzate di Arca russa era stata la scelta di un unico piano sequenza, in Francofonia è proprio la molteplicità-mescolanza dei livelli narrativi e temporali a rappresentare una delle ricchezze del lungometraggio[2]: le immagini ricostruite dell’ingresso a Parigi dei tedeschi si alternano a quelle dello studio del regista, e le riprese di un cargo che nel mare del Nord, cargo che trasporta opere d’arte si sovrappongono a quelle del Radeau de la Meduse come in un discorso continuo, un dialogo fra epoche che tuttavia, per poter essere praticato, necessita di un linguaggio comune, identificato nell’espressione artistica ed estetica, che sembra guidare le azioni degli uomini semplici come dei conquistatori più celebri.
Tra tutti questi piani Sokurov si muove come il pastorello manzoniano, raccontando, discutendo, ma soprattutto introducendo e parlando con due personaggi che, entrati in scena dopo un “ciak” di apertura, si muovo sfocati in una sensazione di vecchia pellicola come in uno spazio immaginifico, che forse rappresenta anche l’unico piano reale, mettendo in scena la vera storia, quella “da salvare”.
Ed è proprio nelle riprese volontariamente sbiadite, che si svolge la narrazione: la storia d’un “illustre inconnu”, d’un funzionario della Repubblica francese che continua a fare il suo dovere nonostante tutto: per la sua République (nonostante gli atroci dubbi legati alla deriva di Vichy), per le formazioni partigiane alle quali aderiva, per salvare il patrimonio culturale che gli era stato affidato, e forse anche per qualcos’altro, per quello spirito comune di civilizzazione, che sarà scoprire anche nel suo equivalente professionale delle forze occupanti naziste.
É un’attenzione ritrattistica (“Cosa sarebbe l’Europa senza i ritratti”, si chiede il regista) che definisce i caratteri di questi personaggi, quasi dimenticati, come sono sconosciuti i visi che vediamo ritratti nei musei.
La ricerca di ciò che è possibile rappresentare in un film dell’arte viene perseguita anche tramite una cura meticolosa dei dettagli, tanto che – come riporta il produttore della pellicola – “i lavori di postproduzione nel film hanno preso più di sei mesi e la gradazione del colore era prossima al dipingere”.[3]
Al contrario di un Wisemann, che in National Gallery mostra la quotidianità museale, la poesia di ogni giorno, Sokurov ricerca l’arco di grande respiro che disegna la tendenza artistica europea. Francofonia è anzitutto un film sull’arte, come d’altronde un film sugli uomini, che dell’arte sono l’elemento principale, come d’altronde un film latu sensu politico, che è alla base della vita associata degli uomini stessi. Un’opera di resistenza, un’opera sulla Resistenza storica ed un’opera sulla resistenza universale alle forze della dispersione, del deradicamento (“Cosa sarebbe una Francia senza Louvre? O una Russia senza Hermitage” si chiede il regista).
Se l’identità nazionale sembra presentarsi essenzialmente come “enracinement” con caratteri “barrésiani[4]” (con tutto quello che ciò politicamente comporta), il museo è ciò che permette alle radici di resistere nei secoli, l’arca – per riprendere la metafora di Arca Russa – che contiene la storia di una nazione.
“Alla lunga, ero uno dei loro, un familiare di questo strano mondo. Mi ero abituato a vedere tra le ombre, ed elle – penso – mi riconoscevano. Mi vedevano solo con loro in queste gallerie, in questi vasti depositi raramente visitati”[5] scrive lo storico francese Michelet, ed è da quegli archivi che inizia la rincorsa nel Louvre vuoto di una Marianne incapace di uscire dai suoi sogni e d’un Napoléon nostalgico della sua grandezza, che osserva perplesso le opere che lo celebrano: fantasmi di un passato che nei musei riesce a continuare ad esprimersi.
Il cargo che lotta contro le onde è quindi non solo un novello Radeau de la Méduse, non solo l’immagine dell’importanza dei musei nel salvaguardare la storia nazionale, ma forse anche la rappresentazione della nostra memoria: straordinaria e fragile, sempre in pericolo di perdere tutto ciò che ha conquistato in secoli di civilizzazione e ritornare alla barbarie.
Raramente momento fu più adatto ad un film che riflette di queste tematiche: le immagini delle distruzioni dei reperti storici ed archeologici in alcune parti del mondo sono nella memoria di tutti e sempre più spesso le massime autorità politiche di alcuni stati (come, ad esempio, proprio la Francia), ci ricordano come “nous sommes en guerre”, o, con Sokurov, in giorni di tempesta
“Navigare necesse est”: è la disincantata conclusione del film, una necessità di resistenza, artistica e culturale che, nei nostri tempi di tempesta, nei quali vediamo i reperti del passato venire distrutti per ragioni ideologiche, aiuta a trovare una risposta, un appiglio, per resistere alle onde.
Ci si permette infine una nota personale, che se non ha forse modificato l’analisi del film in oggetto, ha sicuramente rafforzato l’idea di una sua necessità all’interno del panorama culturale e del dibattito socio-politico odierno. Si è visto questo film per la prima volta in un cinema d’art et essai di Toulouse, la sera del 14 novembre 2015. La data spiega in gran parte come mai si fosse soli nella sala buia, circondati dalla paura che la tragedia di Parigi del giorno prima sollevasse altri incubi, non sufficientemente sopiti dagli arresti e dai ritrovamenti di armi che si erano avuti durante la notte nella cittadina del sud della Francia. Ecco: in tempi in cui andare ad un café, recarsi a vedere un film, visitare un museo diventa un atto di resistenza, la poetica di Francofonia può rivestire di uno sguardo incantato una realtà altrimenti dalle tinte fosche, la realtà che costituisce oggi il nostro mare in tempesta.
[1] Oliver Barde, produttore del film; “For Aleksandr the past is not something which is behind us, it is something that is under our feet you just need to dig to find it.” Citato in: http://www.screendaily.com/news/aleksandr-sokurovs-francofonia-sold-into-europe-japan/5091749.article
[2] Nota al riguardo BOARELLI MARIO in “L’arte e il potere in Francofonia” come “nonostante il rigore formale e la padronanza tecnica, la strategia narrativa fondata sullo spostamento incessante della prospettiva e il mutamento continuo della scala di osservazione non è mai finalizzata a una ricerca puramente estetica. Al contrario, mostra una salda padronanza dei noti teorici e metodologici che porta con sé un’indagine sul rapporto fra storia, arte e potere. Lo sguardo non è mai neutrale, e le variazioni di scala offrono punti di vista differenti e fra loro complementari. Da questo punto di vista, si può rintracciare una sintonia tra il lavoro di Sokurov (e Francofonia in particolare) e l’approccio della microstoria.”
[3] Oliver Barde, produttore del film; “Postproduction on the film took more than six months and “colour grading was closer to painting”. Citato in: http://www.screendaily.com/news/aleksandr-sokurovs-francofonia-sold-into-europe-japan/5091749.article
[4] Si veda: TRONQUART GEORGES, L’enracinement barrésien ou le mystère de Barrès, Bulletin de l’Association Guillaume Budé : Lettres d’humanité, n°13, décembre 1954. pp. 137-167 (www.persee.fr/doc/bude_1247-6862_1954_num_13_4_5057)
[5] “[…] à la longue, j’étais un des leurs, un familier de cet étrange monde. Je m’étais fait la vue à voir parmi ces ombres, et elles me connaissaient, je crois. Elles me voyaient seul avec elles dans ces galeries, dans ces vastes dépôts rarement visités” (MICHELET; prefazione del 1868 a Histoire de la révolution française)