Dentro il grande Centro di identificazione ed espulsione
dicembre 30, 2015 in Recensioni da Mario Baldoli
Vengono dalla parte sbagliata del mondo, li chiamano clandestini, e come tali, sono illegali.
Filo spinato e muri altissimi intorno, illuminazione intensa e totale, videocamere, mezzi blindati e grigliati, due furgoni del reparto cinofili con cani che latrano, una sentinella armata sorveglia da una torre. Cinquanta soldati fanno la ronda all’esterno. Non si pensi a Hitler perché qui c’è anche il furgone della Croce Rossa.
Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ha avuto il permesso di visitare per due giorni il Centro di identificazione e espulsione (CIE) di Porta Galeria, nei pressi di Roma, il più grande d’Italia. Ne è nato il libro. Crimini contro l’ospitalità. Vita e violenza nei centri per gli stranieri, ed. il melangolo.
Un grande edificio poco lontano da Fiumicino in un’area degradata tra discariche abusive, abbandono, isolamento.
E’ la realizzazione di quanto prevede la legge Turco-Napolitano (1992). La cancellazione del diritto di avere diritti, direbbe Hannah Arendt, ma ci troviamo anche la conferma della banalità del male. Quante persone “non fanno altro che il loro dovere?” E quanti altri guadagnano sui migranti? La gestione del CIE di Porta Galeria è appaltata a un privato per 18 milioni. Dietro quella legge, incattivita dalla Bossi-Fini, c’è la scelta di sospendere il diritto e affidare ogni problema alla polizia
Di Cesare supera innumerevoli controlli, la registrano computer che fanno evidentemente riferimento a una centrale, un grande fratello che controlla il Centro.
Da una parte ci sono i reparti maschili, dall’altra i femminili, tutti a loro volta divisi in settori limitati da alte sbarre, i luoghi della segregazione. Lei imbocca un corridoio vietato, ma non si osa trattenerla, entra in un cancello. Ci stanno le nigeriane, ma ci sono anche altre nazionalità, una babele di lingue. Una l’aggredisce subito: “Che cosa vuoi qui? Chi ti manda? Sei una giornalista?”
“Sono venuta perché ho bisogno di voi. Mi concedete qualche minuto? Posso avere un po’ d’acqua?” L’acqua apre il cuore delle donne. Sono donne che hanno subito violenze e sfruttamento, private della libertà anche se non hanno commesso nessun reato. I nostri eufemismi ci confortano: accoglienza, detenzione amministrativa.
Una detenzione decisa dal parlamento e da burocrati ministeriali, che colpisce l’essere non le sue azioni. Il segno di una politica razzista che in passato ha avuto esiti criminali. Scrive Di Cesare: Da quando gli stati-nazione si sono spartiti il pianeta, non ha smesso di prodursi quella “schiuma della terra” che, destinata a fluttuare tra i confini della nazione, può essere calpestata impunemente. Nel CIE, l’incomprensibilità del diverso assurge a devianza, si escogita un crimine che giustifichi la punizione e si demolisce l’internato per adattarlo al crimine.
All’ingresso consegnano vestiti e bagaglio, ricevono lenzuola di carta, tute e ciabatte prive di lacci. Parte degli effetti personali saranno restituiti in seguito, poche cose, dato che l’immigrato non porta con sé armadi di vestiti. Tenersi puliti è l’ultimo avanzo di dignità. “L’immagine di sé è aggredita, svanisce la sicurezza, si vive nell’ansia per la propria integrità psichica”. Gli psicofarmaci, abbondantemente distribuiti, allontanano il desiderio di rivolta: scioperi della fame, protesta delle ciabatte, incendi nel marzo 2010 e nel luglio 2011, tentati suicidi (come ci si può togliere dal mondo con lenzuola di carta?): “gesti di autolesionismo”, scrivono i giornali.
Al Centro di Lampedusa succede anche che i migranti – allineati, nudi – siano “disinfestati” con spruzzatori antiscabbia. Secondo le stime di Fortress Europe che si basa sugli archivi della stampa internazionale, dal 1988 al febbraio 2014, sono morte lungo le nostre frontiere circa 20.000 persone.
L’Italia non rispetta le leggi europee sull’espulsione (l’immigrato dovrebbe lasciare il Paese in modo autonomo), ma usa rimpatri coatti. Anche l’ospitalità da parte di un cittadino è reato.
Lo Stato sociale diventa lo Stato penale, e il razzismo si annida anche nei ceti più poveri timorosi di un declassamento (la storia ripete la guerra della plebe di Roma contro la cittadinanza agli italici).
Tuttavia voglio rispondere al non detto dai difensori dell’accoglienza: che società vogliamo? Vorrei una società mulatta e meticcia.